Customizzare il mondo

Da qualche tempo a questa parte il marketing dei prodotti di consumo, anche di brand notissimi e globali,  punta tutto sulla personalizzazione e l’emozione

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Negli anni Sessanta del secolo scorso la parola custom evocava immancabilmente le due ruote celebrate da Easy Rider, Harley Davidson e affini, personalizzate con aerografi, accessori e finiture a seconda del gusto del proprietario: customizzare significava quindi personalizzare la propria motocicletta. Da due decenni a questa parte custom e customizzare hanno iniziato a comprendere tutto ciò che ci circonda, a cominciare dagli oggetti, dalle cose che usiamo abitualmente e di cui amiamo circondarci.
Tutti noi vogliamo essere unici.  In moltissime collezioni, di abiti, di scarpe, di accessori, di mobili e anche di prefabbricati, a moltissimi prodotti alimentari e cosmetici, alla versione standard è stata affiancata la versione custom, una versione costruita sulle esigenze di un cliente, una versione che lo deve emozionare, far entrare un prodotto all’interno di un’esperienza privata e singola, deve materializzare un suo desiderio.

Immagini della catena italiana Minimarket del riciclo, il de-branding della Coca Cola indirizzato alla personalizzazione delle confezioni, l’architetto Patrick Norguet ideatore del restyling degli spazi ristoro Mac Donald’s

Le bottiglie di Coca Cola e i vasetti di Nutella con frasi e nomi propri hanno seguito questa linea, come hanno avuto questa intuizione, brillante e basata sulle loro esigenze. La stessa intuizione l’hanno avuta Filippo Lombardo e Davide Frappietri, i giovanissimi inventori della catena Minimarket del Riciclo, che, partiti da Rimini con pochi soldi in tasca, in poco più di tre anni hanno aperto ventuno stores in giro per l’Italia. La loro idea base è stata quella di personalizzare abbigliamento streetwear con borchie, disegni, toppe e, nello stesso tempo, di creare un vero e proprio brand grazie a collaborazioni con idoli dei teen agers come Guè Pequeno dei Club Dogo e a testimonial del mondo del rap e dell’Hip Hop italiano, cosa che ha trasformato i loro punti vendita in luoghi di ritrovo di giovani adepti del genere.
Mac Donald’s ha affidato il restyling di molte sue sedi europee all’architetto francese Patrick Norguet che, in team con l’azienda italiana Alias, ha rivoluzionato il non luogo Mc Donald’s, rendendolo più caldo e raffinato della maggioranza dei lounge bar asettici da apericena. Nello stesso tempo la multinazionale statunitense ha progettato una campagna di comunicazione total glocal: agricoltori, allevatori italiani e neo assunti under 30 trasformati in testimonial, menù tematici a base di carne cento per cento italiana, di scamorze, pesti alle genovese: ha quindi customizzato il suo prodotto, indirizzandolo alla “pancia” (intesa come sede di emozioni e non solo di stimoli) dei consumatori.
Progettare sulle emozioni e parlare al desiderio individuale è la nuova frontiera del design. In Giappone all’inizio degli anni Novanta è nato il Kansei, una tecnologia che traduce i sentimenti del consumatore e l’immagine del prodotto in elementi di design. È una scienza che unisce ricerche psicologiche e neurologiche per migliorare la comprensione delle nostre reazioni estetiche e soggettive. Un metodo che consente di creare un vocabolario comune che mette in rete il know how di specialisti di ambiti differenti, come il marketing, l’ingegneria, le scienze cognitive e il design industriale. Kansei vuol dire sensazione psicologica o immagine di prodotto. Identifica le percezioni e le risposte emotive del cliente, traducendole in caratteristiche effettive di prodotto. Il design, infatti, serve a collegare la percezione del brand nella mente del consumatore e la concretizzazione del prodotto a esso associato nella mente dell’azienda.

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Kansei vuole dire “sensazione pscologica” o “immagine di prodotto”

L’obiettivo è, quindi, capire i bisogni emotivi dell’utente rispetto a quelli funzionali, per predisporre un design di prodotto che riflette ciò che il soggetto desidera, ma non riesce ad esprimere con le parole. Utilizzando il modello Kansei a supporto del designer appena dopo la formulazione del concetto di prodotto, è possibile verificare la distanza tra quanto il designer intendeva esprimere in termini di armonia, bellezza e funzionalità e quanto il consumatore o l’utente effettivamente ha percepito di tali qualità progettate. In particolare, misura le percezioni relative agli aspetti del prodotto che il consumatore difficilmente riesce a esplicitare.
Kansei è diventata anche la frontiera del marketing: chi deve vendere un prodotto qualsiasi lo deve fare basandosi sulle emozioni e sui desideri, li deve prevedere, avviare una relazione dialettica con il consumatore, coinvolgerlo, farlo sentire un consumautore (la citazione è del sociologo e studioso di tendenze Francesco Morace), cercare la sua opinione, ascoltarla. Chi si occupa di vendite immobiliari sa che l’Home Staging non è soltanto una moda Made in Usa adatta alle ville Hollywoodiane e protagonista di trasmissioni su Real Time tv, ma può essere, con una spesa iniziale non troppo impegnativa, l’unico modo per vendere e non deprezzare il valore di un immobile altrimenti destinato a rimanere sul mercato per anni. Si tratta di operare una mise en scène, il più delle volte basata su elementi come colori dei muri, tappezzerie, accessori, profumi e luci, che valorizza in modo scenografico una casa in vendita, la trasforma in un ambiente confortevole e accogliente, parlando all’emozione di chi sta cercando un luogo per viverci, non uno spazio vuoto da riempire: rende reale un’esperienza partendo dall’ascolto delle caratteristiche individuali e dei bisogni di chi si ha davanti.

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