Quelle città nascoste negli interstizi della città

Sabina Ghinassijpg11Sabina Ghinassi Critico d’arte e giornalista, ha tre figli e cinque gatti rossi. Negli anni ha collaborato con diversi giornali locali, è stata caporedattore del magazine bmm, curato quattro edizioni del Festival Internazionale del mosaico under 35 Città di Ravenna, organizzato mostre, scritto testi per artisti giovani e meno giovani e tentato di trasformare il suo giardino in un cottage garden all’inglese con esiti disastrosi. Negli ultimi anni è presidente di Rete Almagià, il collettivo di associazioni creative di stanza alle Artificerie Almagià. Per la Rete, insieme a Gerardo Lamattina e Roberto Pasini, dal 2013 ha avviato i progetti di mappatura emotiva del territorio “Map Your City” e Ravenna Urban Tribes, lavorando con gli adolescenti delle scuole di Ravenna. Oltreché giardiniera frustrata, è curatrice insieme ad Angela Corelli delle prime due edizioni della manifestazione Green Thoughts a Palazzo Rasponi, nell’ambito della mostra-mercato Giardini e Terrazzi-Verde Ravenna. Su Casa Premium si occupa di fenomeni artistici, design e stili di vita.

1 –     La spiaggia libera di Lido di Classe

Essenziale e arcaica. È la spiaggia libera di Lido di Classe, un luogo dove azzerare il desiderio di confort e comodità che ormai contraddistingue la nostra relazione con il mare. Sono 5 Km di spiaggia che dalla Foce del Bevano arriva agli stabilimenti di Lido di Classe.  Una parte, in prossimità della foce, è preclusa all’accesso perché ci nidifica il fratino, un piccolo raro trampoliere. Una spiaggia selvaggia, abitata dai legni portati dalle mareggiate, dalle dune, dalle ombrellifere e dai gigli marini, dalle graminacee litoranee, dal profumo dei pini; una spiaggia dietro la quale vedi solo il cielo e non alberghi e condomini anni ’70 vista mare schierati. Ci si può accedere dalla pineta, a piedi o in bicicletta, lungo i sentieri. In passato ( e ancora su qualche guida on line) era nota come spiaggia gay; ora è assai libera, di gusti, etero o omo poco importa, di età, generi e target, libera da stereotipi soprattutto. Diciamo che è una spiaggia fluida dove l’unico denominatore comune è l’amore per il paesaggio e per la biodiversità, il rispetto e la misura, insieme all’allergia al gossip del vicino d’ombrellone. Forse per la lontananza dalle foci di fiumi e canali, l’acqua è quasi sempre trasparente e la sabbia fine è impreziosita dal rosa delle calliste, dai cardium, dalle turritelle, dai piedi di pellicano, dai pettini. Dopo le mareggiate talvolta capita di vedere anche qualche stella marina. Se si va lì, anche d’estate, è automatico tornare a un ritmo tribale: tende nomadiche, feticci  instabili e tronchi impregnati di salsedine che diventano sculture, ritmi slow interrotti da qualche kite surf in lontananza.  D’inverno, se possibile, è quasi più bella e, se nevica, accade che qualche daino si scorga in lontananza.

2 –     CorpoGiochi  a scuola e nella vita

Ho conosciuto CorpoGiochi tardi, circa tre anni fa. Sapevo che era stato progettato da Monica Francia, la coreografa di Cantieri, che lo faceva in diverse scuole elementari, medie e asili. Conoscevo già Monica perché lavoriamo insieme dentro Rete Almagià in Darsena. Poi ho visto, per dovere di cronaca (un piccolo report per la stampa, ndr), le prove del lavoro che Monica Francia e Selina Bassini avevano organizzato per la grande giornata dedicata alla candidatura Ravenna 2019  in Piazza del Popolo. Lì, alle prove nella  palestra della Scuola Media Montanari, mi sono proprio commossa. Mi sono commossa, con gli occhi lacrimanti come quando vedevo i film di Renato Cestiè da bambina ( quelli dove lui, dopo che i genitori egoisti e con amanti vari si separavano, invariabilmente moriva per incidenti, per malattia, etc), mi sono anche un po’ vergognata perché non ho più dieci anni e non riesco a sedare l’archetipo del bambino sofferente lentigginoso che alberga da qualche parte dentro di me. Ma sono stata anche molto felice e orgogliosa di vedere tanti bambini e bambine, ragazzi e ragazze tutti diversi di età, radici, aspetto, storie, vestiti, mescolati lì dentro armonicamente, attenti e presenti a loro stessi e a quello che succedeva intorno. Ascoltavano, si muovevano, si fermavano, correvano. Erano come tanti piccoli semi di piante diverse portati via dal vento. E dentro CorpoGiochi, che educa attraverso il corpo alle emozioni, alla conoscenza e al rispetto di sé e degli altri, ho pensato che tutti quei piccoli semi avevano trovato un modo per crescere meglio, per ascoltare le proprie radici nella terra e per spingere fuori il loro germoglio perché qualcuno gli aveva dato qualcosa in più. Un’occasione per crescere meglio. Ho ripensato ai bambini e alle bambine di CorpoGiochi della Montanari anche all’inizio di agosto, sul treno Eurocity diretto a Monaco di Baviera, alla fermata di Bolzano. Dal finestrino ho visto sette poliziotti accompagnare fuori dal treno due ragazzini nigeriani, puliti e ordinati, con la camicia azzurra stirata alla perfezione che spiccava sulla pelle scura, come per un giorno di festa. Avevano sì e no l’età dei miei figli. Poi li hanno portati via. Ho pensato che quei semi, nonostante il vento li avesse portati lì, forse non avrebbero avuto occasioni. E sono stata felice, e anche un po’ orgogliosa, di abitare a Ravenna.

3 – I giardini interni di Ravenna

I giardini interni di Ravenna sono una città verde nella città. Li devi scoprire un po’ alla volta, adottando lo sguardo del Flâneur . Cercando di perderti e guardando la città da un’altra prospettiva. Devi farti straniero e raccogliere tutto ciò che non è abitudine di sguardo, di gesti e passi automatici. Allora si svelano. Un po’ alla volta. Magari dietro quella strada da cui sei passato migliaia di volte in mezzo al traffico veloce, dietro al portone chiuso, sul fondo di quell’androne,  intuisci un inspiegabile pezzo di cielo, il canto sorprendente di un’allodola, il verso stridente di un pavone al crepuscolo d’estate: è una frattura nella maglia urbana che si dilata, si allarga e si lascia avvolgere di suoni e di verde. Crea un’altra cartografia, storica e affettiva; si aprono giardini secolari con alberi maestosi e solenni, oleandri, rose, ortensie, camelie, agrumi, piante degne di un orto botanico mediterraneo che crescono rigogliose protette dai muri alti. Si aprono anche enormi orti urbani che mescolano i fiori e i pomodori, gli ulivi e gli albicocchi e i susini e sembrano usciti da un quadro di Domenico Miserocchi. Hanno la stessa grazia agreste. La stessa bellezza incandescente e umile fatta di senso e necessità. Possono anche essere piccole gemme verdi, inondate dal profumo di caprifoglio e gelsomino, dai colori dei gerani, delle erbacee perenni.  Piccoli spazi intimi in cui rifugiarsi. Ma è un’altra città che si svela, bizantina e preziosa sì, ma ad un tempo ancora impregnata di campagna, di nobiltà rurale che ama sporcarsi le mani di terra, che mescola la rêverie romantica alla fascinazione del caso, dell’erba povera trovata e accolta accanto alla rosa botanica. Un’altra città nascosta negli interstizi della città.

Foto 1 di Angela Corelli/ Foto 2  di Fabrizio Zani/ Foto 3 di Gerardo Lamattina

4 –     L’Istituto D’Arte  per il Mosaico Gino Severini

Effettivamente, insieme all’Accademia di Belle Arti, l’Istituto d’Arte per il Mosaico è una scuola soltanto ravennate. Fondata nel 1959 come scuola adatta a formare operatori musivi nel campo dell’arte, della decorazione e del restauro su suggerimento dell’artista futurista Gino Severini, ebbe come primo direttore il pittore Teodoro Orselli poi, dal 1961, Giovanni Guerrini, progettista acuto, designer innovativo, artista eclettico e curioso. Guerrini aveva partecipato a Roma alla decorazione musiva dell’Eur, era stato insegnante di Mosaico all’Accademia di Ravenna nel ‘24, poi Direttore Artistico dell’Ente Nazionale Piccole Industrie Italiane dal 1929, dove aveva promosso la valorizzazione dell’arte applicata in Italia, anticipando lucidamente la luminosa stagione del design Made in Italy.  Aveva valorizzato gli artigiani artisti che lavoravano pietre e merletti, legno e vetro, coralli e tela stampata; aveva fatto un po’ quello di cui parlano adesso all’Expo con grande anticipo. Guerrini, architetto di formazione, vedeva nel mosaico un valido supporto all’interno della progettazione architettonica. All’Istituto d’Arte diede una forte impronta, costruendo una scuola innovativa che, alla sapienza della mano, affiancava lo studio filologico, alla sperimentazione artistica univa la saggezza e la competenza del restauro. Negli anni, seguendo questo bizzarro mix di filologia e sperimentazione, dalle aule dell’Istituto d’Arte (e poi, frequentemente, da quella dell’Accademia di Ravenna), sono uscite decine di artisti, insegnanti e operatori musivi straordinari, che ci invidia tutto il mondo.
Dalle mani di ex allievi di quella scuola sono nate opere d’arte bellissime ma anche progetti di design e di architettura innovativi e sorprendenti che hanno oltrepassato le frontiere. Poi nel 2010 gli istituti d’arte sono scomparsi a causa della Riforma Gelmini, cancellati come luogo di formazione e di esperienza dal Ministero, assorbiti dai Licei Artistici. Sono cambiati i governi, ma l’ottusità bieca è rimasta. Chi ha resistito, come Ravenna, che nella fusione con il Liceo Artistico ha mantenuto il corso del Mosaico, lo fa strenuamente, combattendo contro i tecnocrati di turno, contro “somministrazioni”, curvature, scenari da didattica orwelliana schizofrenica e aziendale. Per questo, se oggi si pensa al Nostro Istituto d’Arte, che resta nella sede storica di Via Beatrice Alighieri anche se assorbito dal Liceo Artistico Nervi, è bene considerarlo una scuola coraggiosa, che non si adegua ma lotta. Di farne un simbolo etico, anche istituzionale, di questa città, del suo pensiero e della sua identità.

5 – L’ossimoro Ravenna

L’ossimoro è una figura retorica che unisce contrapponendoli due pensieri o due significati che sono di per sé inconciliabili perché l’uno esprime il contrario dell’altro. Ravenna, per molti aspetti, è una città-ossimoro (molte altre città italiane lo sono, ma Ravenna lo è in particolare). Ravenna è preziosa e bellissima, ma è anche brutale e piena di disordini estetici inqualificabili.  Quest’abitudine all’ossimoro è particolarmente visibile lungo via delle Industrie- via delle Valli, non tanto nella parte iniziale, quanto in quella immediatamente precedente allo svincolo per Porto Corsini, lì dove la strada è un confine, un taglio bruciante, una cicatrice che segna la frattura inconciliabili tra due mondi, tra due vite. Una frattura che, in qualche modo, ci rappresenta, rappresenta le nostre scelte, l’eredità che lasciamo a chi viene dopo di noi. È lo specchio implacabile della nostra responsabilità. Da una parte il paesaggio industriale, con la sua mappa olfattiva disturbante, i suoi rumori, la sua luce fredda, i colori scuri, i fumi, dall’altra la piallassa, la perfezione della vita che si rinnova nel silenzio, gli uccelli palustri, il profilo della pineta, l’apparente immobilità delle sue acque salmastre. Nella piallassa c’è qualcosa di sublime che ci esclude; continua ad essere lì nonostante noi e, per quante ferite possiamo infliggerle, in qualche modo troverà una strada. La troveranno per lei le erbe ruderali che crescono sul ciglio della strada avvelenata e che faranno il loro lavoro bonificando il terreno tra cento, duecento anni, la troveranno i pioppi che colonizzano il cemento delle fabbriche abbandonate e apriranno la strada ad altri alberi, più esigenti di loro. Nonostante noi, nonostante la nostra idea di tempo che, a ben guardare, è un battito di ciglia nella storia del mondo.

6 –     Il Camerone di S. Stefano  e i Lumini del 9 febbraio

La sera del 9 febbraio, sino a qualche decennio fa, moltissime case nelle campagne ravennati erano illuminate da piccole luci sui davanzali delle finestre. Era un evento meraviglioso quando ero bambina. Alle volte i lumini erano bianchi, alle volte anche rossi e verdi,  altre volte erano candele dentro lanterne cinesi o luminarie da festa paesana. A me piacevano comunque moltissimo. Nel paese dove abito (S. Stefano, nelle Ville Unite) quella sera facevano anche una grande festa, al Camerone dei Repubblicani, nell’ex Palazzo dei Conti Ginanni. Arrivavano persone da tutta la campagna di Ravenna, anche da quella di Forlì e Cesena. Le ragazze si agghindavano e ballavano tutta la notte con gli spasimanti. Le madri le controllavano in piedi sulle sedie, ai lati del Camerone. Anche il mio nonno, repubblicano fervente, di quelli che facevano il giro largo per non passare vicino alla chiesa, partecipava alla festa e metteva rigorosamente i lumini alla finestra.  Io ho continuato da sola quando lui se n’è andato. Ostinatamente, anche quando tutti gli altri lumini piano piano negli anni si spegnevano e il Palazzo Ginanni è stato venduto. La tradizione di accendere la sera del 9 febbraio dei lumini e di porli sui davanzali delle finestre per tutta la notte è nata il 9 febbraio 1849 per festeggiare la nascita della Repubblica Romana, a seguito dei moti insurrezionali del 1848. Quella Repubblica ispirata agli ideali di Mazzini ebbe vita breve ma aprì la strada alla nostra Costituzione, all’abolizione della pena di morte, alla libertà di culto. Tutti valori che in questi tempi bui hanno bisogno di essere “ riaccesi” e ricordati con forza. Dopo essere ragionevolmente invecchiata, quei lumini a inizio febbraio li ho associati, simbolicamente, alle altre feste delle luci di inizio primavera, dai Lupercalia romani all’Imbolc dei Celti, sino alle varie Sante e Madonne nere e del fuoco sparse per l’Italia, piene di  ceri, candele e fuochi, accesi dopo il buio dell’inverno, nel mese più difficile dell’anno, quando le riserve nel granaio cominciavano a scarseggiare e il raccolto era ancora lontano. Ma dentro di me è rimasta la tradizione civica del lumino, quella di festeggiare la Repubblica, che è la nostra storia e anche una bellissima fiaba da raccontare a chi è giovane adesso.

Foto 4 L’Istituto d’Arte per il Mosaico/Foto 5 di Gerardo Lamattina/Foto 6 di Moreno Carbone, dal libro di  Maurizio Maggiani, Quello che ancora vive. Il salvamento del generale Garibaldi nelle terre di Romagna, 2011

7 – Lavori in Comune

È iniziato quattro anni fa e si è subito dimostrato un grande successo, di numeri, partecipazione e passione: Lavori in Comune, il progetto di volontariato e cittadinanza attiva nato da una scommessa sugli under 18 del Comune di Ravenna, dell’assessore Valentina Morigi e dell’Assessorato al Decentramento. Chi non ha incrociato un gruppo di magliette gialle per le strade della città o del forese nelle ultime estati? Gli under 19  dimostrano di non essere propedeuticamente votati a un futuro da neet generation, ma hanno altre idee in proposito e a moltissimi piace mettersi in gioco. E non davanti alle telecamere di Geordie Shore. Questo in barba a sondaggi, classifiche, consumi, buone scuole, più o meno aziendali e neocon. Loro, durante queste settimane al servizio della loro città, fanno di tutto: dalle scarpine all’uncinetto per i  neonati prematuri dell’ospedale a documentari sull’educazione di genere, dai cartoni animati (meraviglioso quello sulla favola romagnola delle tre ocarine del gruppo di S. Pietro in Vincoli) all’abbellimento di spazi pubblici; diventano ortolani, guide turistiche, giornalisti, bibliotecari, falegnami, riparatori di biciclette, elettricisti, mosaicisti. Imparano tante cose e nello stesso tempo si divertono e accumulano crediti scolastici. Sorridono e si fanno nuovi amici, fanno vedere concretamente quale può essere la Ravenna dei prossimi anni se la mettiamo nelle loro mani. Sono commoventi. Non promettono, fanno. Contrariamente alla maggior parte dei loro genitori.

8 – La Vite Maritata di Bastia

La vite maritata era il metodo di coltivazione più diffuso dei vitigni in Romagna sino alla prima metà del secolo scorso. Si trattava di accompagnare la natura rampicante della vite a un tutore, possibilmente un albero vivo.  Questo albero era quasi sempre l’olmo, le cui foglie erano un ottimo foraggio. I frutti, chiamati tecnicamente Samare, venivano consumati freschi nelle insalate e, seccati, diventavano il pan di maggiolino, una golosità particolarmente amata dai bambini. Il legno duro era utilizzato per creare attrezzi agricoli e mobili.  La terra allora non veniva arata in profondità; le viti non venivano irrigate, non venivano concimate, non subivano trattamenti antiparassitari, non venivano innestate, non ne avevano bisogno: il matrimonio con l’olmo produce una simbiosi radicale delle micorizze (piccoli funghi) delle due piante che fa bene ad entrambe. Imparano a curarsi, a fare manutenzione l’uno dell’altro, a sorreggersi durante le tempeste, a difendersi dagli attacchi dei predatori, proprio come un marito e una moglie che si amano veramente. La scienza l’ha scoperto da poco, dopo decenni di abuso di sostanze chimiche letali, di avvelenamento intensivo del suolo. Le viti abbracciate agli olmi si dispiegavano verso il cielo e segnavano il nostro orizzonte con le alberate, alternate a zone destinate al foraggio o al grano. Oggi non se ne vedono quasi più, tranne in un posto: a Bastia, sul confine tra il forese sud di Ravenna e Forlì.  Forse quell’essere finis terrae l’ha reso un posto vintage (c’è anche la Sagra della Vacca Romagnola). Lì, sulla sinistra da Ravenna, lungo la Via Petrosa c’è una grande alberata. Come quelle etrusche e latine descritte da Plinio e Virgilio, come quelle medievali e ottocentesche. È grande e maestosa, piena di rifugi per gli uccelli, per le lepri e i porcospini, con qualche salice, rovere e rosa canina.  Ci sono anche le arnie per le api. È un frammento di paesaggio antropizzato ma meraviglioso, da guardare con lentezza, dal quale si può tentare di imparare ad andare avanti con maggiore equilibrio e rispetto.

9 – Il matrimonio tra  Santi Muratori e Lina Poletti

Ecco un’altra cosa che rende orgogliosa di essere a Ravenna. Particolarmente in questo periodo in cui, avendo figlia in età scolare, sono su un gruppo mamme whatsapp. Qui ho ricevuto il messaggio del Comitato “Giù le mani dai nostri figli”, accorato appello contro l’educazione di genere nelle scuole. Secondo il comitato, l’educazione di genere è degna di un film di Rocco Siffredi. Il Malleus Maleficarum dell’Inquisizione è nulla in confronto: insegnamento della masturbazione a partire dal Nido e via dicendo (forse le mamme di whatsapp un po’ lo sognano Rocco Siffredi che fa workshop esperienziali in mezzo ai cartelloni colorati con le manine). Era una bufala del web, tranquillamente documentabile. Comunque, al messaggio ho risposto che, come le orate e le cernie in natura, ero in passaggio tra generi diversi e quindi impossibilitata fisiologicamente ad aderire. Mi hanno definita violenta. Ero in realtà molto irritata e ho pensato che, proprio a Ravenna, di unioni di genere diverso ce n’è stata una bellissima, fuori dalle righe e assolutamente poetica e gentile: il matrimonio tra Lina Poletti e Santi Muratori, tecnicamente definibile matrimonio a orientamento misto. Dovrebbero fare ricerche e raccontarla questa storia (soprattutto alle mamme di whatsapp) e impararla a memoria. Lei, Cordula, in arte Lina, scrittrice e femminista, è stata l’amante prima di Sibilla Aleramo, poi di Eleonora Duse e infine compagna di Eugenia Rasponi, contessa ravennate e imprenditrice a Santarcangelo di Romagna (a lei si deve la riscoperta delle stampe romagnole). Lui è stato il vate dell’erudizione ravennate; bibliotecario storico della Classense, intellettuale finissimo e grande dantista. Erano amici d’infanzia e si sposarono in un matrimonio definito “fraterno” nel 1910, al momento dell’interruzione della relazione tra la Poletti e Sibilla Aleramo. Resta, di quel matrimonio, una fitta corrispondenza epistolare. Un’affinità profonda, di testa e di cuore. Quest’unione non è mai stata sufficientemente indagata, e, quando per caso mi ci sono imbattuta, mi ha sempre incuriosito. Mi ha ricordato le relazioni del Circolo di Bloomsbury: il filosofo Bertrand Russel, Virginia e Leonardo Woolf, Vita Sackville West e Harold Nichoson,  Lytton Strachey e la pittrice Dora Carrington, l’economista  John Maynard Keynes e Lydia Lopokova, Duncan Grant e Vanessa Bell. Tutti fluttuanti (tranne Russel, credo) tra varie identità sessuali. Alcuni, la maggior parte, erano felici, con matrimoni solidissimi e, a loro modo, ricchi di amore. Some kind of loving, dicono in Inghilterra, dove sono più attenti di noi alle sfumature. Ad uso e consumo delle mamme di whatsapp e dei nuovi, tetri, fondamentalismi.

10 –    Piazza dell’Unità d’Italia,dietro il Bar Nazionale

Confesso che per scrivere questa serei di articoli mi ero stancata di sentire solo la mia voce, piuttosto arbitraria e anche a rischio malinconia e deviazioni prospettiche dovute all’età. Così ho chiesto un’opinione un gruppo di diciottenni della nostra città. Molto spesso lo sguardo di un’altra generazione aggiunge visioni diverse e sghembe. Il che può diventare interessante.
Qual è il posto che ti piace e senti più tuo a Ravenna?
La risposta iniziale è stata, ma già lo intuivo, un generico «il centro»: questo strano centro ectoplasmico nel quale i ragazzi e le ragazze sciamano, strusciano, si incontrano, camminano per ore senza fermarsi.  Non è più il centro degli anni ’80 della Rinascente in Via Diaz dove si incontravano i Cippols con i capelli a caschetto, le maglie a righe e i jeans larghi sopra e stretti in fondo; né quella dei Clocchers, i fighetti che stavano sotto la Torre dell’Orologio alle 19 con i Camperos e l’Henry Lloyd blu; né quella delle ragazze della Tazza d’Oro, belle, bionde, magre, alte, con gli stivali scamosciati di Sebastian e i jeans di velluto a costine color pastello. Adesso questo centro sembra non aver confini, non ha più punti di riferimento, tracce di raccordo, ma è diventato fluido come un’autostrada virtuale, senza segni visibili, abitudini affettive: uno spazio dove  loro passano quasi galleggiando.
Però non mi sono accontentata e ho insistito: Ma io volevo sapere qual è il posto dove stai bene? Che ti piace, insomma, dove ti senti bene se ti fermi…
Loro hanno risposto all’unisono: «Piazza dell’Unità d’Italia, dietro al Bar Nazionale! Perché è tranquilla, ci si può sedere sulla gradinata, è piccola e non c’è rumore, perché è fatta bene. Perché è polleg,  (trad.polleggiato, cioè rilassante ) insomma, hai capito, no?…»
La cosa, confesso mi ha un po’ sorpreso, e va contro gli stereotipi generazionali: nessun estremismo ma cose semplici e normali. Un posto intimo nel quale sentirsi accolti e protetti, dove si può chiacchierare senza troppa confusione. Non vogliono una discoteca o un lounge bar modello Miami, ma una piazzetta, semplice, semplice, non troppo impegnativa. Una piccola lezione per archistar e urbanisti.

Foto 7 Progetto di volontariato e cittadinanza attiva magliette gialle,foto di Pietro Campri/Foto 8 Vite Maritata/Foto 9  Alcuni componenti del Circolo Bloomsbury (da sinistra,  Lady Ottoline Morrell, Maria Nys, Lytton Strachey, Duncan Grant e Vanessa Bell)/Foto 10 Piazza dell’Unità d’Italia,dietro il Bar Nazionale

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