In un nuovo romanzo il ravennate Paolo Casadio torna sul tema della Shoah

Lo scrittore ha appena dato alle stampe il suo terzo libro Fiordicotone: «Conoscere la storia significa capire chi siamo. Gli uomini ripetono gli stessi errori e purtroppo i giovani non sanno molto: a scuola spesso studiano solo le date…»

Paolo Casadio ScrittorePluripremiato con i romanzi La quarta estate e Il bambino del treno (entrambi editi da Piemme), Paolo Casadio torna in libreria con il terzo libro, Fiordicotone (Manni editore).
Come nei romanzi precedenti, lo scrittore sceglie l’ambientazione della seconda guerra mondiale e ancora una volta ci parla del- l’orrore della Shoah: una donna sopravvissuta ai campi torna a Lugo alla ricerca della figlia, che era stata nascosta e protetta da uno scono- sciuto al momento dell’arresto.

Per chi volesse saperne di più sono diversi gli incontri in calendario con Casadio nei prossimi giorni tra cui giovedì 27 gennaio alle 17.30 alla Trisi di Lugo e altri ne sono previsti a seguire. Intanto, abbiamo fatto due chiacchiere con l’autore a proposito del libro e non solo.

Casadio, perché tornare a questo periodo storico?
«Sono storie che mi accompagnano fin dalla mia infanzia, dai racconti di mia nonna che era nata nel 1908 e che quando stava con me rinunciava alla lettura di “Grand Hotel” e mi raccontava le storie della guerra. Viveva in una casa poco fuori Ravenna dove un giorno si trovarono i canadesi appostati dietro la parete sud e i tedeschi su quella a nord: per un giorno lei si trovò sul fronte, dentro la sua stessa casa. Poi, sempre da ragazzino, ho visto tanti film su quell’epoca che mi hanno molto colpito. Da adulto ho continuato a documentarmi. La guerra, nel suo orrore, è un’esperienza enorme per gli esseri umani in cui emergono insieme gli slanci più nobili e i gesti più vergognosi. A questo si aggiunge ciò che è stata la Shoah, qualcosa di inimmaginabile e continuo a chiedermi come possa essere accaduto e perché».

La storia è ambientata a Lugo, dove effettivamente c’è sempre stata una comunità ebraica. E ancora oggi sono tante le famiglie lughesi che possono raccontare di aver nascosto un ebreo in casa all’epoca. Lei peraltro racconta una vita quasi idilliaca nel ghetto prima della guerra.
«Sì, la comunità ebraica è stata quella che ha reso Lugo nella storia un mercato noto fino in Francia e ha rappresentato fino al 10 percento della popolazione. E già prima della guerra c’era una grande integrazione e in effetti sono stati molti i lughesi che si sono in qualche modo ribellati agli arresti di matrice razziale. Leggendo cronache e documenti, sappiamo per esempio di un maresciallo che avvisò una famiglia per darle il tempo di fuggire prima dell’arresto, un primario nascose alcuni ebrei in reparto all’Umberto I fingendo che fossero pazienti ingessati. E poi ci fu Vittorio Zanzi, che ha salvato centinaia di persone. Si sono messi in moto marescialli, preti e semplici cittadini per salvare i concittadini ebrei che ormai facevano parte della comunità. Un effetto anche delle idee mazziniane, socialiste e anarchiche che attraversavano allora la Romagna».

Come sempre dal suo lavoro emerge anche un’attenta documentazione. La sua protagonista è una donna che si è salvata e che per questo si sente in colpa. Un tema che ricorre spesso nelle testimonianze di chi uscì vivo da quell’inferno.
«Sì, il senso di colpa dei sopravvissuti era molto frequente e a questo spesso si doveva il loro silenzio, anche perché all’inizio non veni- vano creduti, tanto era l’orrore di cui erano stati testimoni. La mia protagonista è una bella donna che si salva perché finisce nei bordelli per i gerarchi nazisti, una realtà questa su cui è difficile trovare notizie ma che è esistita. In generale è vero, io invento poco nei miei libri, rielaboro materiali, testimonianze, attraverso gli strumenti della narrazione. Per esempio tutta la parte ambientata in Svizzera (che la protagonista attraversa nel viaggio di ritorno e dove si ferma prima di poter rientrare in Italia, ndr) nasce dal diario del colonnello elvetico Antonio Bolzani che documentò l’arrivo dei sopravvissuti. Un libro meraviglioso, che ho trovato alla biblioteca di Cotignola».

A proposito di strumenti della narrativa, l’impressione è che lei abbia usato registri diversi in base ai personaggi. Il suo italiano ironico, impastato di qualche calco dal dialetto, per esempio è riservato a don Briscola, mi pare.
«È proprio così, e ci tengo anche a dire che Don Briscola, con il suo cane Pirro, è un omaggio dichiarato a Don Fuschini. Per quanto riguarda la lingua, devo confessare che quando mi sono trovato davanti al dolore di Alma Vita, la protagonista, alla sua storia di sofferenza mi è sembrato che ogni coloritura fosse eccessiva, rischiasse lo stereotipo e così per Alma ho usato diciamo più una scrittura ad acquerello. È stata una scelta naturale, di cui mi sono reso conto alla fine».

Fordicotone Romanzo CasadioA un certo punto descrive l’indole romagnola come “ruvida”, come “ruvido” del resto è il dialetto?
«Sì, è vero, il nostro è un dialetto aspro che ha avuto una storia e un destino diverso da altri dialetti. Ma non è solo il dialetto, ruvido è il carattere di una società sanguigna, abituata a celare i sentimenti, a schermarli. Ma questo non significa che non ci siano, anzi»,

Omero, Archimede, Velia. Anche i nomi un po’ sui generis sono tipici di queste parti.
«È vero, ci sono tante storie divertenti a questo proposito. Personalmente poi, ho l’abitudine di girare per cimiteri dove è facile, appunto, scovare questi nomi dai rimandi anche letterari».

Come ha detto, lei lavora moltissimo sulla documentazione e la ricostruzione storica. Ma crede che oggi ci sia sufficiente consapevolezza di ciò che è accaduto? E può accadere o sta accadendo? Penso per esempio ai migranti al confine orientale dell’Europa, al freddo e al gelo…
«Da un certo punto di vista la Shoah, la distruzione organizzata su scala e con modi industriali di intere popolazioni forse, mi au- guro, non potrà più accadere. Ma quello che vediamo oggi a quei confini, peraltro così vicini a dove sorsero gran parte dei campi di sterminio, davvero deve farci riflettere. La storia è maestra, ma oggi temo ci siano pochi allievi».

La storia si ripete? E i ragazzi più giovani cosa ne sanno della storia?
«Sono gli uomini che ripetono gli stessi errori. Purtroppo ho l’impressione che anche i giovani non sappiano molto, la storia imparata a scuola spesso viene percepita come una sequenza di date, mentre la storia è ciò che fa di noi quello che siamo oggi».

Stiamo rischiando di banalizzare termini come fascismo, dittatura, segregazione o anche guerra quando li usiamo per raccontare il Covid o l’uso del Green Pass?
«Certo. Qualcuno che grida di vivere in una dittatura sta dimostrando, per il solo fatto di poterlo gridare, che ciò che dice è falso. Rischiamo di banalizzare e privare queste parole di significato. Usare la stella di David è ancora un messaggio efficace e veloce, ma credo sia una vera e proprio offesa per tutti coloro che hanno perso la vita o i propri cari nello sterminio nazista. Purtroppo viviamo nell’epoca della ipersemplificazione, indotta anche dai social, dove tutto deve essere immediato ma così diventa anche superficiale. I tempi sono questi. A maggior ragione mi piace raccontare memorie il più possibile documentate».

A questo proposito, c’è già un nuovo progetto in cantiere?
«Sì, ed è il seguito de La quarta estate. Sarà ambientato sul Lago di Garda dal ‘43 al ‘45, dove passava la guerra, ai tempi della Repubblica di Salò. Anche questo frutto di un lungo lavoro di documentazione».

EROSANTEROS POLIS BILLBOARD 15 04 – 12 05 24
CENTRALE LATTE CESENA BILLB LATTE 25 04 – 01 05 24
NATURASI BILLB SEMI CECI FAGIOLI 19 – 28 04 24
CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24