Vite quotidiane da antifascisti: il bel romanzo storico dell’esordiente Servidei

“Sette maiali grassi” è scritto con una lingua che ricalca l’oralità, impastata di dialetto, e racconta, senza retorica, fatti della Bassa lughese nel Ventennio e soprattutto negli anni della guerra e della Resistenza

Brunella Servidei Sette Maiali GrassiL’impressione è quella di sentire raccontare la vita quotidiana degli anni del fascismo e della guerra da parte di un nonno negli anni Settanta o Ottanta, quando i nonni (e le nonne) erano quelli che la Resistenza o la guerra l’avevano fatta davvero, e forse era ormai passato abbastanza tempo da aver voglia di tramandare i ricordi ai nipoti.

Il libro Sette maiali grassi (Set purch gres) di Brunella Servidei, uscito poco prima dell’alluvione di maggio per Il Ponte Vecchio (la casa editrice cesenate rimasta particolarmente colpita dal disastro ambientale) è innanzitutto questo: un lungo racconto che ci permette di tornare alla Bassa lughese di quegli anni, costruito a partire da varie testimonianze reali con uno stile che lo rende particolarmente piacevole, coinvolgente, a tratti divertente, drammatico ma mai greve. «In realtà non sono cresciuta in una famiglia dove si raccontavano storie così – ci racconta l’autrice, lughese, classe 1962, oggi insegnante con un passato di traduttrice dal catalano – mi è capitato di ascoltarle da adulta e ho pensato che non dovessero andare perse, che la memoria andasse mantenuta e tramandata. Mi è sembrato di avere tra le mani un capitale, qualcosa di davvero prezioso. E così ho cominciato a lavorarci, ormai otto anni fa, integrando i racconti con ricerche di archivio e in biblioteca per tratteggiare il quadro più ampio».

E in effetti sono due i piani che si intrecciano nella voce dell’io narrante, da un lato la testimonianza di un giovane contadino della bassa che si finge pazzo per evitare di essere arruolato negli anni del fascismo e diventa a suo modo protagonista della Resistenza, dall’altro la ricostruzione della storia locale con la S maiuscola, come si suol dire, con una sequenza di fatti verificati e documentati. A colpire è però innanzitutto la lingua dal ritmo orale, impastata di dialetto senza mai diventare troppo gergale, con cui il protagonista racconta le sue avventure, quell’umorismo verace delle campagne nostrane, affilato e arguto. «Da traduttrice ho in effetti soprattutto tradotto dal dialetto, cercando di lasciare quell’elemento di narrazione orale che rendeva il racconto autentico e appassionante. Accanto a questo è emerso, mi rendo conto, anche il mio lato da insegnante che vuole però precisare il contesto, mettere i fatti sempre in prospettiva».

Brunella Servidei

Nasce così un libro per certi versi sorprendente, trattandosi di un’autrice esordiente, che può parlare a più generazioni, da chi conosce la grande storia ma non le vicende locali a chi invece di quel periodo (e magari di questo territorio) ha solo idee molto generali. «Il mio primo lettore è stato mio figlio, che era alle medie, non era né un grande lettore né un amante della storia. E invece l’ho visto ridere mentre leggeva le mie pagine. E questo mi ha dato la spinta ad andare avanti». Ecco così emergere un affresco che dà profondità a fatti ormai spesso relegati solo ai manuali oppure a manifestazioni un po’ di maniera accanto ad aneddoti mai finiti nelle cronache ufficiali. Chi sono stati i veri Partigiani? Solo gli eroi che hanno poi ricevuto medaglie? No, ovviamente no. E per mostrarcelo Servidei ci racconta del ruolo dei contadini che nelle loro case non accoglievano solo sfollati, ma anche renitenti alla leva, antifascisti, combattenti e li nutrivano, li vestivano, permettevano loro di raggiungere le montagne o i luoghi in cui avrebbero combattuto. Ci sono le donne che hanno rischiato la vita, che hanno scioperato contro i fascisti, che hanno reso possibile quanto è accaduto. «Conosciamo la parola “staffetta” – ci dice l’autrice – ma forse non ci rendiamo bene conto del rischio che ognuna di loro ha corso davvero».

Un romanzo storico insomma, dove ci si affeziona al protagonista ma si scopre, per esempio, perché Bagnacavallo sia stata risparmiata dai bombardamenti alleati (una delle tante incredibili e rocambolesche vicende di questo libro che a tratti prende le sembianze di un romanzo di avventura). Soprattutto si ha uno squarcio su cosa furono quegli ultimi mesi di inverno
tra il ‘44 e il ‘45, dopo che a fermare l’avanzata degli alleati furono piogge e inondanzioni…

Servidei è chiaramente di parte, ma non tratteggia santini, i suoi sono uomini e donne che hanno paura, hanno fame, hanno bisogno, che non sempre fanno la cosa giusta o più saggia. E ci è difficile non vedere nel protagonista che si finge pazzo e che ogni tanto teme di esserlo davvero anche una suggestione letteraria su un tema che attraversa la storia della letteratura, ossia quello di chi sia davvero il folle in un mondo di follia. Un tema quanto mai attuale forse in ogni epoca, sicuramente in questa. «In fondo, volevo solo dire, soprattutto ai giovani – conclude Servidei – che davvero la storia siamo noi, per questo dobbiamo conoscerla, per questo dobbiamo interessarci a ciò che ci accade intorno».

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