Paolo Nori e la letteratura che non teme censure e dittature

L’autore di “Sanguina ancora”, sulla vita di Dostoevskij, a Ravenna ospite del festival Scrittura

Paolo NoriTra i protagonisti di questa prima parte di ScrittuRa Festival, c’è lo scrittore parmense Paolo Nori, ospite al Palazzo dei Congressi di Largo Firenze, oggi (venerdì 13 maggio) alle 21 in un intervento dal titolo “La lezione di Dostoevskij”, in dialogo con Matteo Cavezzali. Il rimando ovviamente è al suo romanzo Sanguina ancora, dedicato proprio alla vita del grande scrittore russo, edito da Mondadori.

Rispetto a quando è uscito, nel 2021, il suo libro oggi sembra aver assunto una nuova connotazione politica con l’invasione russa in Ucraina. Lei stesso, rifiutando l’invito dell’università Bicocca a inserire degli autori ucraini in un corso inizialmente pensato per parlare di autori russi, ha fatto emergere per primo come si rischi di confondere un governo con un popolo e addirittura una storia letteraria. Com’è la situazione a oggi? C’è davvero chi mostra diffidenza verso autori come Dostoevskij solo perché sono russi? O vi è forse un rinnovato interesse?
«Ho rifiutato di fare lezione su degli autori ucraini perché non conosco la lingua ucraina e non mi sembra di aver nessun titolo per parlare, da una cattedra, di letteratura ucraina, così come non farei lezione sulla letteratura estone, su quella portoghese o su quella neozelandese, per dire. C’è della gente che pensa che la Russia sia il male assoluto e che non esistano russi buoni, e che non si possa, oggi, leggere Dostoevskij, eseguire la musica di Čajkovskij e mettere in scena Čechov. Questo è tutto materiale che viene buono per la propaganda russa. Subito dopo la censura della Bicocca per le strade delle città russe sono comparsi dei cartelloni che dicevano “In italia vietano le lezioni su Dostoevskij. Noi invece Mark Twain continuiamo a leggerlo con piacere”».

Il titolo Sanguina ancora, ci spiega nel libro, si rifà alla metaforica ferita che le provocò Delitto e castigo quando lo lesse la prima volta, mai rimarginata. Oggi però quel titolo fa pensare anche a una ferita materiale aperta nel rapporto tra Europa e Russia. C’è il rischio che questa guerra possa congelare i rapporti, scoraggiare per esempio i più giovani a studiare la lingua russa e a scoprire il paese?
«Io ci ho messo 25 anni a capire la prosa di Čechov, sono due mesi che cerco di capire questa guerra, è troppo poco tempo, non mi sembra di poter dire niente di significativo a proposito. Credo però che l’interesse per la cultura russa non sia destinato a diminuire».

Traduttore, conoscitore della cultura russa, organizzatore di viaggi letterari a San Pietroburgo e Mosca, lei si trova oggi, forse suo malgrado, a farsi paladino di una cultura di dialogo “con il nemico” in un contesto bellico. Come si sente in questa veste? Aveva mai pensato in questi anni che sarebbe potuto accadere qualcosa di simile?
«Non mi sento nemico di nessuno, né paladino di niente. Io ho quasi sessant’anni e la scoperta più stupefacente della mia vita è che il mio unico nemico sono io».

Che ruolo ha o può avere la letteratura in un contesto di guerra come questo?
«Se lei è interessata alla guerra ha sbagliato interlocutore: come le ho già detto, non saprei dire niente di intelligente, su questa guerra, quindi le racconto un’altra cosa: in seguito all’episodio che mi ha visto involontario protagonista, ho ricevuto centinaia di inviti, anche dalla Cina, dagli Stati Uniti, dalla Bulgaria, dall’Iran, dal Brasile; mi hanno cercato in tanti, e tra questi una televisione russa. Volevano fare un documentario su di me. Mi hanno mandato le domande e a tutte quelle domande avrei dovuto rispondere «Non lo so». Come le ho già detto, ci ho messo 25 anni a capire la prosa di Čechov, e credo che rifiuterei un’offerta di tenere una conferenza su Čechov, non ne so abbastanza; sono poco più di due mesi che provo a capire cosa succede in Ucraina, in Donbass, e qui in Occidente in seguito a quel che succede là, figuriamoci quanto ne so. Una cosa, però, l’ho scritta, al giornalista russo che voleva fare un documentario su di me : “Una cosa che mi conforta – ho scritto – in questo momento terribile, è la reazione che c’è stata in Italia dopo l’annullamento dei miei 4 interventi alla Bicocca di Milano. Ho ricevuto centinaia di inviti a parlare di Dostoevskij in università, teatri, biblioteche, librerie, e farò proprio così. I 4 interventi che non ho tenuto in Bicocca diventeranno 44 interventi in tutta Italia, e abbiamo già cominciato. Questa vicenda minuscola dimostra una cosa che voi in Russia sapete bene: la letteratura è più forte di qualsiasi censura e di qualsiasi dittatura”. Poi ho postato questa cosa su Instagram, qualcuno ha commentato che l’unica risposta da dare era che c’è stata un’aggressione. Io gli ho risposto “È indicativo il fatto che lei sappia che risposta avrei dovuto dare senza conoscere le domande. Complimenti”. Succede così, c’è un sacco di gente che su questa guerra è convinta di sapere tutto, e che ci sia poco da capire, che sia tutto chiarissimo. E a me viene in mente una cosa che ho scritto tante volte, che l’ultima volta che è morto un Papa, io, che cerco di non leggere i giornali, non ho la televisione e cerco di non sentire la radio, me ne sono accorto perché nel bar dove andavo a far colazione, sotto casa mia, a Bologna, eran diventati tutti dei vaticanisti. Sapevano tutto, come se avessero tutti studiato teologia. Beati loro».

Il suo libro è insieme appassionante, commovente e molto divertente, con un ritmo e una cifra stilistica inconfondibili per chi la segue da tempo. Ha vinto premi e ottenuto critiche entusiastiche, ma qualche lettore – ce lo racconta lei stesso – l’ha criticata per aver messo anche se stesso dentro al romanzo e per aver scritto un saggio e non un romanzo, o viceversa. Insomma, sembra non sappiano su che scaffale metterlo nella libreria. Lei quale scaffale aveva in mente mentre lo scriveva? Ha mai temuto di risultare in qualche modo quasi irriverente verso un gigante della letteratura mondiale? E c’è qualche modello che l’ha ispirata in questo lavoro?
«Sanguina ancora, per me, è un romanzo, c’è scritto anche in copertina. Poi che qualcuno non lo consideri un romanzo, e che a qualcuno non piaccia per niente, è normale, non credo esistano libri sui quali i giudizi sono unanimi, non i miei, per lo meno. Il libro è uscito da un anno, lei è la prima che usa la parola “irriverente” ; non mi sembra affatto irriverene, ma se lei crede che sia irriverente, avrà le sue ragioni. A me sembra il libro di un appassionato. I modelli, in origine, erano due : Il bottone di Puškin di Serena Vitale e Limonov di Emmanuel Carrère; poi è venuto fuori un libro molto diverso, come succede sempre, per lo meno a me».

In un passaggio, sollecita a leggere i libri, leggerli letteralmente, non a guardare una versione cinematografica o ad ascoltarli. Eppure la sua mi sembra una scrittura particolarmente adatta alla lettura ad alta voce, proprio per una sua scelta stilistica, o sbaglio? E potrei aggiungere che la sua lettura dell’audiolibro proprio di Sanguina ancora è imperdibile.
«Nel libro dico che uno studente americano, al quale era stato chiesto se aveva letto Bartleby lo scrivano, aveva risposto «Non di persona», e aggiungo che a me i libri piace leggerli di persona. Quanto alla vocazione orale, per così dire, di Sanguina ancora, mi sembra che anche Memorie del sottosuolo, o Anime morte, o Il cappotto di Gogol’, o l’Evgenij Onegin di Puškin siano molto adatti a una lettura ad alta voce, per non parlare, per esempio, dell’Orlando Furioso; non credo che questo li renda meno libri di altri meno adatti a una lettura ad alta voce, anzi».

Ci consiglia qualche autore russo contemporaneo?
«Non ho un grande rapporto con la letteratura russa contemporanea. Mi piace molto il romanzo Maksim i Fëdor di Venedikt Erofeev , ma non è mai stato tradotto in italiano. Posso consigliare La coda, di Sorokin, un libro degli anni ottanta, e lo staordinario poema ferroviario Mosca – Petuški, sempre di Erofeev». (fe.an.)

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