“Gig economy”: un’indagine sul lavoro tra globale e locale, a partire da Ravenna

In città si vedono i primi rider per le piattaforme online, ancora sconosciuti ai sindacati tradizionali: «Complicato arrivare a queste persone»

Rider Justeat

La gig economy sta entrando nelle nostre vite in punta di piedi, quasi inosservata. Come tutti i fenomeni proteiformi, è difficile da catturare. Cambia connotati radicalmente, a seconda del suo campo d’applicazione. Una volta è un fattorino Deliveroo che ti porta un hamburger a casa in bicicletta. Un’altra, è una babysitter contattata attraverso un’applicazione. O ancora, un tuttofare TaskRabbit che ti aggiusta il lavandino, o un copywriter freelance ingaggiato da un’azienda privata su Fiverr.
Vediamo tutti questi fenomeni, che in Italia stanno muovendo i primi passi, ma non li colleghiamo a una radice comune. Non ci accorgiamo che si tratta di una trasformazione enorme, che sta avvenendo qui ed ora, destinata a cambiare radicalmente il mercato del lavoro nei prossimi anni.
Internet è la base di questa trasformazione, guidata dai software delle “piattaforme”: aziende spesso formate da poche decine di persone che non producono niente ma che riescono, grazie alla loro enorme potenza di calcolo, a incrociare domanda e offerta, a livello planetario.
Tutto qui: un’applicazione sul telefono che ci fa trovare esattamente quello che stiamo cercando. Paghiamo meno per un servizio a domicilio, la piattaforma incassa una percentuale ridicola e il fornitore del servizio ci guadagna qualcosa. Che problema c’è?

Free (?) Rider
Sono loro i più visibili, i rider che sfrecciano sulle biciclette o i motorini: pettorine e cassoni colorati, ci consegnano piatti caldi direttamente a casa. Basta fare un giro nelle grandi città per realizzare che si tratta di una marea montante. A Parigi, nel Marais, sembrano i corridori di una tappa del Tour. Proprio dal comparto del food delivery è stato lanciato l’allarme. Le accuse: gli stipendi sono da fame; le piattaforme impongono il cottimo per massimizzare il profitto; non ci sono adeguate tutele lavorative; la sicurezza sul lavoro è minima.
L’inglese Deliveroo, arrivata a Ravenna alla fine di febbraio, paga i suoi rider 4 euro a consegna; il massimale dell’assicurazione privata che offre ai suoi lavoratori è 50mila euro. Il tutto, a fronte di un fatturato che nel 2017 ha raggiungo i 277 milioni di sterline. La catalana Glovo paga 2 euro netti i fattorini; il massimale dell’assicurazione è 20mila euro. Fatturato sconosciuto.
Il discorso è ancor più radicale per Just Eat (che nel 2018 ha registrato un fatturato di 779 milioni di sterline, anch’essa attiva anche a Ravenna) e Uber Eats, costola del più celebre servizio di taxi privati Uber (che valeva, nel 2018, 11 miliardi di dollari): queste piattaforme non assumono direttamente i loro fattorini, ma si appoggiano a società interinali o ai singoli ristoranti.
Le piattaforme rispondono alle accuse dicendo che hanno creato nuovi posti di lavoro, regolamentando professioni che prima erano in nero; e che i rider sono contenti della flessibilità offerta, perché sono loro stessi a decidere se e quando lavorare. Ma è davvero così?

Strani “imprenditori”
Nella retorica aziendale della piattaforme, il fattorino diventa l’imprenditore di se stesso. I contratti, quasi tutti di lavoro autonomo occasionale, lo dimostrano. Ma si tratta di imprenditori strani che, se fanno i rider come unico lavoro, guadagnano mediamente 570 euro al mese, pedalando circa 40 ore alla settimana. Senza ferie, senza malattia, senza alcun rapporto diretto con la piattaforma. Lavoratori autonomi che guadagnano quanto gli immigrati impiegati nella filiera dei pomodori in Calabria. Autonomi che lavorano con un’uniforme, facendo pubblicità al marchio; autonomi che, se rifiutano una consegna, rischiano di scendere velocemente nel ranking interno d’affidabilità stilato da un algoritmo inaccessibile. Così, uno strumento che sembrerebbe incentivare la meritocrazia, finisce per diventare una molla allo sfruttamento e alla spietata competizione tra i lavoratori.

I numeri dell’Inps
Ma di quante persone stiamo parlando? In Italia la stima più accurata del fenomeno rimane l’indagine realizzata dalla Fondazione Debenedetti in collaborazione con l’Inps nel luglio 2018. I sondaggi indicano un intervallo possibile che va dai 590mila ai 750mila impiegati gig. Di questi, 175mila lo svolgono come unico lavoro. Pochi, si potrebbe ribattere. Ancora per poco. Un dato interessante emerso dall’indagine mostra che l’81% degli intervistati si è avvicinato ad un lavoro gig tra la fine del 2017 e l’inizio 2018. Se questo tasso di crescita dovesse continuare (e nulla sembra smentirlo), tra pochi anni i numeri potrebbero essere molto più alti.
Ma chi sono questi lavoratori? Sono persone istruite (il 30% di loro ha avuto un’istruzione terziaria e superiore, contro il 20% in media della popolazione italiana) che provengono da famiglie “con evidenti maggiori difficoltà economiche”. Solo studenti che arrotondano, dunque? Tutt’altro: l’incidenza d’età più elevata è quella dei lavoratori poveri fra i 30 e i 40 anni. Tout se tient: la gig economy ha proliferato sotto l’ombra lunga della crisi del 2008.

Foodracer Consegna

La punta dell’iceberg
Ma il dato più interessante dell’indagine Debenedetti riguarda il tipo dei lavori svolti. È emerso che solo il 12% del totale lavora in bicicletta o in motorino; il 7% in auto o in furgone. E gli altri? Il 70% dichiara che l’unica cosa che mette in “condivisione” è la propria forza lavoro.
Insomma, i rider sono soltanto la punta dell’iceberg della gig economy. Sotto il livello del mare si estende un immenso esercito di lavoratori, impiegati nelle mansioni più diverse, che si rivolgono alle piattaforme per arrotondare un salario sempre più magro. Una sacca di nuovi poveri disposti a rinunciare a tutele, diritti e tempo libero per mantenere una qualità di vita dignitosa.

Farsi vedere
Marco Marrone, ricercatore e sociologo, è tra i fondatori di Riders Union Bologna, primo esperimento di sindacalismo informale dal basso finalizzato a rendere visibili i fattorini del capoluogo. Da questa esperienza è nata la Carta di Bologna, esperimento di collaborazione fra amministrazione e sindacati unico in Europa .
«Il sindacato è arrivato tardi», spiega Marrone. «La Cgil non ha colto l’importanza di questa vicenda. Fin dall’inizio la prima cosa che ci chiedeva era di tesserarci. Non si è capito il potenziale fortemente simbolico della vicenda dei rider, il fatto che attorno a loro si è identificato il mondo del nuovo precariato». Importanza colta invece da Luigi di Maio che, all’inizio del suo mandato nazionale, ha sfruttato questa occasione per presentare il Movimento 5 Stelle come principale protettore dei precari digitali italiani contro lo strapotere delle piattaforme. Sono andato in via Matteucci per avere una replica dalla Cgil e tastare il terreno. Che si stia muovendo qualcosa anche a Ravenna, col recente l’arrivo di Deliveroo e Just Eat?

La grande disaffezione: i sindacati a Ravenna
«Se è andata davvero così, chiedere il tesseramento è stato un errore. Io non sono capace di chiedere ai lavoratori che vengono da me di tesserarsi», ribatte Ada Assirelli, responsabile della sezione ravennate del Nidil, il sindacato dei lavoratori atipici. Ma, tessera o no, la Cgil si è accorta dell’esistenza dei rider?
«All’interno della Cgil c’è una grande discussione su questo tema. Un rider, durante l’assemblea nazionale dello scorso gennaio, ha dichiarato di non aver bisogno del sindacato, che il suo lavoro gli andava benissimo così, autonomo e svincolato. Il problema è complesso perché comprende casistiche estremamente diverse fra loro», spiega Assirelli. «Io, a Ravenna, non ne ho ancora visto uno», continua. «Mi piacerebbe parlare con loro, ma non vengono. Io non posso andarli a cercare uno per uno, a mezzanotte, di fronte ai ristoranti. Evidentemente sono loro a non voler parlare con me».
Per quale motivo? «C’è diffidenza, c’è una grande disaffezione al sindacato, soprattutto tra i giovani. Spesso si rivolgono a noi troppo tardi, quando hanno già preso delle botte nei denti. Non conoscono i loro diritti, le loro tutele. Si è presa una brutta abitudine, in generale: ci si fa andare bene tutto. C’è molto fatalismo sui diritti del lavoro, c’è rassegnazione».
Un analfabetismo di ritorno, quello sui diritti del lavoro, molto inquietante, come documentato dall’indagine Debenedetti: solo il 33% dei rider ha consapevolezza della propria tipologia contrattuale. Ma cosa ha fatto il sindacato per sensibilizzare i giovani su questo tema? «Sicuramente anche il sindacato ha avuto le sue mancanze», continua Assirelli. «C’è stato poco dialogo fra le varie categorie. Ma noi le leggi non le abbiamo mai fatte. E contro il Jobs Act c’eravamo solo noi in piazza, la prima volta».
Chiedo a Yuri Guidi, responsabile provinciale della Filt (Federazione Italiana Lavoratori Trasporti) Cgil, se il sindacato è a conoscenza di incidenti sul lavoro nel ravennate. La risposta, per fortuna, è negativa: «Il numero dei fattorini è ancora troppo esiguo», spiega. «Per questo è complicato arrivare a parlare con queste persone. Per far partire qualsiasi tipo di denuncia c’è bisogno dell’iniziativa di un lavoratore. E noi, qui, non ce li abbiamo».
Ma il quadro è destinato a mutare in fretta.

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