Energia: l’idrogeno trasformato in “magazzino” per le rinnovabili

Al tecnopolo di Marina di Ravenna, Il team guidato da Valerio Cozzani lavora anche sull’impiego di Co2 da biomasse per produrre polimeri e riutilizzare scarti dell’industria ceramica

Sede Tecnopolo Marina Di Ravenna

La sede del Tecnopolo dell’Unibo a Marina di Ravenna

E se la CO2, da principale fattore del surriscaldamento terrestre, diventasse un ingrediente per materiali di nuova generazione? Se nel problema, quindi, ci fosse in qualche modo anche una possibile soluzione? E se trovassimo il modo di stoccare l’energia prodotta dal vento per i momenti in cui il vento non c’è?

Sono questi alcuni dei filoni di ricerca sviluppati dal Tecnopolo di Ravenna al Centro di Ricerche Ambiente, Energia e Mare, di cui Fondazione Flaminia è soggetto gestore. In attesa della nuova sede a Marina di Ravenna, il gruppo guidato dal professore Valerio Cozzani dell’Università di Bologna è già attivo in diversi altri laboratori dell’ateneo. Una ventina di ricercatori e ricercatrici che stanno portando avanti dal maggio 2022 sperimentazioni volte a sviluppare tecnologie per la decarbonizzazione. «Il nostro laboratorio riunisce compentenze diverse che vanno dalla chimica all’ingegneria meccanica e chimica – ci spiega il professore – e ha come obiettivo quello di sviluppare tecnologie per fonti di energia e materiali che non derivino dall’utilizzo di combustibili di fossili».

Tre gli aspetti principali di questo lavoro, a cominciare dalla produzione di idrogeno: «L’idea è che l’energia chimica nelle molecole di idrogeno possa diventare una sorta di serbatoio per l’energia prodotta da fonti rinnovabili, come il sole, il vento o le maree, che è abbondante ma non programmabile e difficile da accumulare. In genere oggi viene trasformata in energia elettrica, difficile da conservare, con tutte le criticità che sappiamo legate per esempio all’uso del litio nelle batterie. Lo stoccaggio chimico tramite idrogeno può essere un’alternativa che ci permette di gestire le fluttuazioni dell’energia prodotta dalle fonti rinnovabili».

Un secondo aspetto della ricerca riguarda invece i materiali e la possibilità di utilizzare la CO2, il biossidio di carbonio principale responsabile dell’effetto serra, per sostituire il carbonio di origine fossile. «In particolare sono due gli aspetti che investighiamo. Il primo è la produzione di metanolo a partire dalla combinazione di idrogeno e CO2. Il metanolo, oggi ottenuto dal petrolio, viene usato come combustibile, ma è anche un building block, ossia una base per la produzione di materiali di vario genere, polimeri, plastiche, utilizzati in edilizia, per l’arredamento o nel tessile. Il secondo è la possibilità di utilizzare la CO2 con scarti dell’industria ceramica per ottenere composti di valore che possano essere riutilizzati, soprattutto in edilizia».

Ma da dove arriverebbe la CO2 da impiegare nella produzione di questi materiali? «La terza linea di ricerca – aggiunge Cozzani – va proprio nella direzione di mettere a punto e migliorare la cattura della CO2 da effluenti di processi industriali». Una possibilità, ci spiega il professore, è di ottenere la CO2 dai processi cosiddetti Hard to Abate (letteralmente: “difficile da abbattere” – ovvero processi per i quali non sono attualmente disponibili soluzioni tecnologiche che permettano di evitare la formazione di CO2 di origine fossile), cercando di separare la CO2 dagli altri gas immessi in aria per catturarla. Al momento però il gruppo sta lavorando in particolare su una seconda possibilità, relativa alla cattura della CO2 prodotta in processi che utilizzano biomasse. «In questo modo potremmo arrivare a produzioni cosiddette Carbon-negative, che contribuiscono cioé a ridurre la CO2 complessiva in atmosfera».

Per un territorio come quello ravennate, con un insediamento chimico importante, si tratta di progetti che, auspicabilmente, potrebbero trovare a breve un’applicazione. Del resto, partner del gruppo di ricerca è Eni, e altre aziende fanno parte del comitato consultivo del laboratorio di ricerca. «I risultati sono già incoraggianti, anche se poco appariscenti – conferma Cozzani. – Diciamo che la resa di un catalizzatore o l’aumento della quantità di idrogeno ottenuto in esperiementi di laboratorio risultano forse ancora poco emozionanti per i non addetti ai lavori, ma confidiamo entro la fine dell’anno di poter disporre di un elettrolizzatore che permetta di realizzare su scala maggiore i processi sviluppati».

E i possibili impieghi industrali? «Il nostro ruolo è quello di passare da una fase di concetto a una di prototipo in una prospettiva triennale. Se poi da parte delle aziende c’è un interesse a sviluppare i prototipi e i processi, in base alla scala della produzione, i tempi di applicazione possono andare dai tre ai cinque anni. Sicuramente, nel rispetto naturalmente della proprietà intellettuale, si tratta di studi che possono interessare qualsiasi azienda che si occupa di chimica o di energia».

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