È il momento delle comunità di energia rinnovabile: «Ecco quali sono i vantaggi»

Chi e come può costituirle, il valore degli incentivi, cosa manca ancora: ne parla Michele Benini, dirigente della Rse

Michele BeniniAnche grazie, o meglio, per colpa dei rincari registrati negli ultimi mesi in bolletta, è diventato sempre più di attualità anche in Italia il tema delle comunità di energia rinnovabile, previste dalle direttive europee già dal 2018 e di fatto introdotte anche nel nostro Paese, anche se al momento in una modalità sperimentale su scala ridotta, in attesa di decreti attuativi che permetteranno lo sviluppo di progetti di maggiori dimensioni.

Ma cosa si intende per comunità energetiche rinnovabili? Si tratta – in estrema sintesi – di un gruppo di cittadini, attività commerciali, pubbliche amministrazioni o piccole e medie imprese che decidono di unire le proprie forze per dotarsi di uno o più impianti condivisi per la produzione e l’autoconsumo di energia da fonti rinnovabili. Un’impresa può mettere a disposizione i propri tetti per installare pannelli fotovoltaici che potrebbero utilizzare anche i cittadini vicini, tanto per fare un esempio banale. Di fatto, si tratta di un importante passo avanti verso lo sviluppo della cosiddetta energia a chilometro zero: era già possibile, per i singoli cittadini o per singole aziende installare impianti a fonti rinnovabili per il proprio consumo, ma non era previsto che tali impianti potessero fornire energia a più utenze, come ad esempio alimentare tutte le unità immobiliari di un condominio con un singolo fotovoltaico sul tetto.

Gli obiettivi di una comunità sono quindi molteplici, dalla sostenibilità ambientale (puntando su alternative alle fonti fossili) allo scopo sociale (implicito nella definizione di “comunità”) fino naturalmente al risparmio economico. Ne abbiamo parlato con Michele Benini, direttore del dipartimento Sviluppo Sistemi Energetici di Rse, Spa del gruppo Gse (la società pubblica Gestore dei servizi energetici) che sarà presente al convegno sul tema organizzato da Legacoop per venerdì 10 giugno al mercato coperto di Ravenna.

Benini, è già possibile quindi attivare una comunità di energia rinnovabile anche in Italia?
«Fondamentalmente da un paio d’anni è possibile, in una forma un po’ limitata. Si possono costituire comunità piccoline, ciascuna sotto una cabina elettrica secondaria, che raggruppa qualche centinaio di utenze al massimo, un piccolo quartiere quindi, da alimentare con impianti a fonti rinnovabili ciascuno di potenza massima pari a 200 kW. Con questi limiti, ne sono comunque nate una ventina in tutta Italia, in attesa che possa invece entrare pienamente operativa la nuova legge (entrata in vigore lo scorso dicembre, ndr) che prevede tra le altre cose di poter passare dalla cabina secondaria a quella primaria».

Qual è la differenza?
«Sotto una cabina elettrica primaria possono starci alcune decine di migliaia di utenti, ossia una piccola città o comunque un grosso quartiere di una grande città. Gli impianti di generazione di energia, invece, possono essere singolarmente dimensionati fino a 1 MW, quindi cinque volte più grandi rispetto a quelli previsti finora».

Cosa manca per poter applicare la nuova legge?
«Un intervento dell’autorità di regolazione di energia, reti e ambiente (Arera) che definisca i vari dettagli, che ci aspettiamo entro qualche mese. Mentre già entro metà giugno sono attesi i decreti attuativi del ministero che dovranno indicare in particolare quanto saranno gli incentivi previsti per queste comunità più grandi, che mi aspetto non siano molto diversi da quelli al momento definiti per la cabina secondaria».

Che sono, esattamente?
«Il governo al momento corrisponde 110 euro al MWh (secondo le stime più recenti, in media una famiglia di 4 persone in Italia ne consuma 3,3 in un anno, mentre le piccole imprese tra i 500 e i 2mila, ndr). Gli incentivi sono previsti però solo sull’energia condivisa, che è quella prodotta dagli impianti di generazione della comunità e consumata dai propri membri nella medesima ora. In questo modo il Governo promuove giustamente quell’energia che viene consumata proprio quando viene prodotta. È evidente quindi che i cittadini o le imprese che partecipano saranno incentivati a spostare, per quanto possibile, i consumi in determinati orari della giornata, ad esempio nelle ore diurne se gli impianti di generazione sono fotovoltaici e producono di giorno. Per facilitare la massimizzazione dell’energia condivisa si può comunque ricorrere anche a sistemi di accumulo, per cui per esempio posso caricare la batteria durante il giorno e poi sfruttarne l’energia per caricare l’auto elettrica di notte…».

Altri vantaggi economici?
«C’è un piccolo beneficio dell’ordine di 8 euro al MWh che deriva dal fatto che l’autorità per l’energia riconosce il fatto che le comunità utilizzano ben poco la rete elettrica principale, quella che sta al di sopra della cabina secondaria, con un conseguente risparmio dei costi di esercizio».

A questo si aggiunge il tema dell’energia che è possibile cedere.
«È infatti possibile cedere al Gse l’energia che viene prodotta dagli impianti della comunità, ad un valore paragonabile al prezzo all’ingrosso dell’energia. Prima di questa crisi il valore medio si attestava attorno ai 50 euro a MWh. Adesso i 50 sono diventati anche 250, con un risparmio per i membri della comunità quindi in prospettiva molto elevato».

Chi può concretamente costituire una comunità di energia rinnovabile e in che forma?
«Singoli cittadini, piccole e medie imprese, anche enti locali, questi ultimi naturalmente con un forte ruolo di promozione, anche per andare incontro a cittadini in “povertà energetica”. La legge non prescrive una specifica forma giuridica, può essere anche un’associazione semplice».

Non c’è il rischio che ora possano approfittare di questa novità anche i “soliti” grandi gruppi del settore?
«Sia la direttiva europea che la legge nazionale prevedono che non possa partecipare a una comunità, con potere di controllo, un soggetto industriale che abbia l’energia come suo principale business. È ragionevole pensare invece che possano fornire un supporto tecnico alla comunità. E in alcuni casi magari fornire gli impianti di produzione, che possono essere di proprietà della comunità oppure, appunto, di proprietà e gestiti da terzi. Ma con il vincolo, ripeto, che il membro della comunità che vota e che ha potere di controllo non può avere come suo business principale proprio la partecipazione alla comunità».

Quali impianti si possono utilizzare?
«La legge parla esclusivamente di impianti a fonti rinnovabili. Il fotovoltaico è naturalmente il più semplice e diffuso, ma magari in una zona collinare o boschiva, con tanto legno, si può pensare agli impianti a biomasse per esempio».

Perché ancora le comunità non si sono moltiplicate, limiti normativi a parte?
«C’è un grosso problema di conoscenza di questa possibilità. Ho partecipato a diversi seminari rivolti ad amministrazioni locali o associazioni imprenditoriali, ma poi tra chi partecipa la conoscenza è ancora limitatissima. Bisogna fare “formazione”, anche con articoli come questi. Tra l’altro, a titolo di curiosità, voglio sottolineare come il concetto di comunità di energia non è per nulla nuovo. Più di un secolo fa in diversi paesini dell’arco alpino si formarono delle cooperative elettriche, in siti dove c’era la possibilità di costruire un impianto idroelettrico e condividerne l’energia prodotta. Queste cooperative esistono ancora e sono soggette a regole, diverse da quelle per le comunità di energia rinnovabile, comunque vantaggiose per i propri membri».

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