Storia e futuro delle concessioni balneari, una vicenda (ancora) senza fine

Abbiamo affidato l’arduo compito di sintetizzare oltre due decenni di “direttiva Bolkestein” al caporedattore di Mondo Balneare, autorevole punto di riferimento del settore, che ringraziamo per la disponibilità.

Alex Giuzio

Alex Giuzio è giornalista specializzato in coste e turismo, caporedattore della rivista Mondo Balneare

Quella delle concessioni balneari è una vicenda controversa e in corso da molti anni, senza che si veda ancora una soluzione all’orizzonte.

Tutto è iniziato nel 2010, quando per adeguarsi alla direttiva europea Bolkestein, l’ultimo governo Berlusconi ha abrogato la legge sul rinnovo automatico delle concessioni: secondo il diritto comunitario, un bene pubblico come la spiaggia non può essere lasciato sempre allo stesso titolare, come si faceva in Italia, bensì deve essere oggetto di periodiche procedure selettive. Tuttavia, all’abrogazione di quella norma non è seguita una riforma che introducesse nuove regole per assegnare le concessioni di spiaggia. Lo stesso governo Berlusconi IV aveva elaborato una bozza di legge per disciplinare le gare pubbliche, ma la proposta fu ritirata perché respinta dalle associazioni di categoria degli imprenditori balneari.

Da allora si sono susseguiti sette governi, e nessuno di questi è stato in grado di approvare una soluzione definitiva.

Per ovviare alla scadenza delle concessioni che man mano si avvicinava, il parlamento ha approvato una serie di proroghe: prima al 2015 (sempre Berlusconi IV), poi al 2020 (Monti) e infine al 2033 (Conte I). Sia il governo Gentiloni che il primo governo Conte hanno tentato di approvare delle riforme organiche, ma entrambe si sono arenate a causa della cronica instabilità politica e dei continui cambi a Palazzo Chigi.

Nel mentre, la Corte di giustizia europea ha dichiarato che anche le reiterate proroghe sulle concessioni balneari sono incompatibili con il diritto comunitario, poiché rappresentano sempre una forma di rinnovo automatico al medesimo soggetto. E a novembre 2021 il Consiglio di Stato è andato oltre: con un’eclatante sentenza, il massimo organo di giustizia amministrativa non solo ha annullato la proroga al 2033, ma ha anche fissato la data del 31 dicembre 2023 come termine ultimo per riassegnare le concessioni balneari tramite gare pubbliche. Dichiarando che eventuali ulteriori proroghe sarebbero invalide e immediatamente disapplicabili. Il governo Draghi ha recepito gli effetti di questa sentenza con la legge sulla concorrenza di agosto 2022, ma ha rinviato a un successivo decreto attuativo il compito di stabilire i criteri con cui effettuare le gare. A causa delle dimissioni anticipate del premier, nemmeno tale decreto è stato emanato.

Concessioni

Foto di Adriano Zanni

Questa, in estrema sintesi, è l’intricata vicenda delle concessioni balneari italiane negli ultimi tredici anni (in realtà ancora più complessa e con molte più sfumature e responsabilità rispetto a quanto si possa illustrare in questo spazio). La palla è ora in mano al partito di Giorgia Meloni, che in campagna elettorale ha dichiarato la sua contrarietà alle gare delle concessioni balneari e ha promesso di salvaguardare gli attuali titolari. Per prendere tempo, l’attuale governo con l’ultimo decreto milleproroghe ha spostato la scadenza delle concessioni al 31 dicembre 2024, ma il Consiglio di Stato ha già dichiarato l’invalidità della norma per i motivi ormai noti. E lo scorso giugno Palazzo Chigi ha svelato la sua proposta per risolvere il problema: l’articolo 12 della direttiva Bolkestein prevede che le procedure selettive debbano essere effettuate solo «qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali», pertanto il governo intende dimostrare che le spiagge italiane non sono un bene scarso e che si può garantire la concorrenza assegnando più concessioni su litorali liberi, permettendo di avviare nuove imprese anziché mettere a gara quelle esistenti. Per farlo, il ministero delle infrastrutture ha avviato una mappatura che ad oggi ha appurato come solo il 19% delle coste italiane sia in concessione, ma il dato è ancora provvisorio, perché resta da stabilire quali spiagge libere siano anche concedibili (escludendo cioè le aree naturali protette, il demanio militare, i tratti non balneabili, eccetera).

La strategia del governo Meloni è ambiziosa e difficile. Per evitare l’avvio di una procedura di infrazione, già minacciato da Bruxelles con una lettera di messa in mora, l’Italia dovrà concordare con la Commissione europea i contenuti della riforma delle concessioni balneari, e non è detto che l’Ue approvi la tesi della “non scarsità di risorsa”: anche se alle spiagge non si dovesse applicare la direttiva Bolkestein, resta infatti il Trattato di Lisbona a imporre le gare sull’assegnazione dei beni pubblici. Inoltre, Bruxelles potrebbe contestare la percentuale di calcolo nazionale utilizzata: i litorali liberi sono quasi tutti concentrati nel sud Italia, mentre i distretti turistici più inflazionati sono già saturi, perciò il governo deve far accettare che un imprenditore interessato ad avere una concessione a Milano Marittima sia dirottato in Calabria o in Sicilia.

Sta di fatto che la situazione di incertezza sulle concessioni balneari è ormai inaccettabile non solo per gli operatori del settore, ma per tutto il paese. Prendiamo come esempio la riviera di Ravenna e Cervia: oltre 400 stabilimenti, in prevalenza piccole e medie imprese a gestione familiare, hanno una scadenza fra pochi mesi senza sapere cosa sarà del loro futuro; il sistema turistico del territorio, che si basa in gran parte sulla spiaggia, non ha garanzie sul proseguimento dell’attuale offerta balneare che è sempre stato l’elemento di attrazione per milioni di persone; le amministrazioni comunali non possono pianificare la gestione del demanio marittimo senza regole certe; e infine i cittadini si chiedono in che mani finiranno le spiagge in quanto beni comuni.

La proroga al 2024 significa solo un altro anno di agonia per un settore in sofferenza già da molti anni, e con l’avvicinarsi della scadenza fissata dal Consiglio di Stato, si rischia il caos: in assenza di un provvedimento da parte del governo, ogni funzionario comunale potrà gestire la situazione a modo suo, con conseguenti disparità e contenziosi a non finire.

Per decidere il futuro delle spiagge italiane, occorre insomma fare in fretta e tenere in considerazione i tanti aspetti della questione. Fare le gare, infatti, non è semplice come si dice nelle chiacchiere da bar o sui social: bisogna stabilire dei criteri uniformi e compatibili col diritto europeo per evitare ricorsi e procedure di infrazione, considerare il modello privatistico a cui lo Stato ha finora demandato la gestione delle spiagge italiane (per intenderci: quel modello che garantisce il servizio di salvamento e la pulizia degli arenili, servizi pubblici sostenuti da imprenditori privati), calcolare il valore aziendale degli stabilimenti balneari (che sono aziende di proprietà, seppure su suolo pubblico) e non dimenticarsi di quello ecologico, importante tanto quello economico.

Inoltre, la concorrenza e le liberalizzazioni richieste dall’Europa non devono essere la bandiera dietro cui nascondere l’ennesima svendita di patrimonio pubblico. In assenza di adeguati paletti, il rischio è che nelle gare domini la legge del più forte, soprattutto nelle aree di maggiore valore turistico; e che dunque, in riviera romagnola come altrove, venga spazzato via l’attuale modello di piccole e medie imprese familiari per fare spazio a insegne di McDonald’s, Red Bull e Valtur sui lungomari, con tutto ciò che ne consegue.

Negli ultimi tredici anni la politica ha deciso di non decidere, congelando la situazione esistente poiché il cambiamento imposto dall’Europa, comunque sarà gestito, richiederà provvedimenti difficili da attuare e impopolari per l’uno o per l’altro interesse in campo.
Ma ora che non si può più nemmeno rinviare la scelta, vedremo entro pochi mesi come si chiuderà questo cerchio già troppo lungo.
La strada è infatti ormai a senso unico: la riassegnazione delle concessioni di spiaggia tramite gare si potrebbe evitare solo facendo
uscire l’Italia dall’Unione europea, ma è indubbio che quello dei balneari non sia un motivo sufficiente per farlo. La riforma del governo Meloni non potrà dunque che disciplinare le procedure selettive, a prescindere dalle promesse fatte: il dibattito non è più se fare o non fare le gare, bensì come farle; per tutelare gli attuali concessionari, è possibile comunque inserire criteri come la premialità per l’esperienza professionale nel settore: sono escamotage che abbiamo già visto nelle precedenti proposte di riforma fallite, e che l’attuale esecutivo potrebbe recuperare dal cassetto per mantenere almeno in parte gli impegni presi.

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