Di olio si parla spesso. Si usa ogni giorno, si dà per scontato. Eppure, raramente ci si ferma a riflettere su cosa davvero contenga una bottiglia d’olio: un prodotto artigianale carico di molecole bioattive o un liquido inodore e insapore ottenuto da processi chimici spinti? Dietro a gesti apparentemente semplici come condire un’insalata, avviare un soffritto, impastare una focaccia, si celano scelte profonde, che toccano salute, ambiente, cultura e industria.
In questo articolo esploreremo le differenze tra l’olio extravergine di oliva di alta qualità e gli oli raffinati o di miscelazione industriale, portando alla luce gli effetti sulla salute e le implicazioni dei processi produttivi.
L’olio extravergine di oliva (Evo) è l’unico olio ottenuto esclusivamente per via meccanica da un frutto fresco: le olive. Nessun solvente chimico, nessuna rettifica industriale. Solo raccolta, frangitura, gramolatura, separazione per centrifugazione e filtraggio. Questo processo estremamente delicato, se portato a termine nel modo corretto, preserva intatti tutta una serie di composti bioattivi di altissimo valore: polifenoli (oleuropeina, tirosolo, idrossitirosolo), tocoferoli (vitamina E), fitosteroli, acido oleico (oltre il 70% degli acidi grassi totali) e squalene. Il risultato è un alimento funzionale, capace di modulare positivamente numerosi parametri fisiologici, dalla pressione arteriosa alla risposta infiammatoria.
L’acidità libera (indicatore della qualità delle olive e del processo) dev’essere ≤0,8%, ma nei grandi oli extravergini si assesta spesso sotto lo 0,3%. Il profilo sensoriale è ricco e complesso: fruttato, piccante e amaro, tutti segnali della presenza fenolica.
Diverso è il destino degli oli ottenuti da semi oleosi (girasole, soia, mais, colza) o dagli oli di oliva lampanti, cioè non commestibili per l’alta acidità e i difetti organolettici. In questo caso si ricorre a processi di raffinazione industriale: estrazione con solventi (esano), neutralizzazione con soda caustica, decolorazione con terre attive, deodorazione a temperature superiori a 200°C.
Tali procedure abbattono ogni molecola bioattiva. Si ottiene così un olio “tecnicamente pulito”, ma nutrizionalmente impoverito. I polifenoli scompaiono, la vitamina E viene distrutta, il sapore è azzerato. Quel che resta è un veicolo calorico privo di benefici, più instabile all’ossidazione e soggetto, in cottura, alla formazione di composti tossici (es. aldeidi …).
Venendo ora all’ambiguità del marketing, una delle trappole più insidiose per il consumatore è l’olio “di oliva” generico. Spesso si tratta di una miscela tra oli raffinati e una minima quota di olio vergine o extravergine, sufficiente a rendere il prodotto commestibile e a conferire un aroma artificiale. Il Regolamento (UE) 29/2012 impone indicazioni in etichetta, ma in modo poco chiaro: frasi come “contiene esclusivamente oli d’oliva raffinati e oli d’oliva vergini” sono spesso scritte in corpo minimo e in posizione defilata.
Il risultato? Un prodotto che sembra Evo, ma non lo è. Con un prezzo invitante, certo, ma nessuna delle proprietà salutistiche che giustificano l’uso dell’olio di oliva nella dieta mediterranea.
Proprietà benefiche che sono state ampiamente studiate: tra i lavori più solidi, il Predimed Study (Spagna, 2013) ha mostrato che una dieta mediterranea supplementata con Evo riduceva del 30% il rischio di eventi cardiovascolari maggiori rispetto a una dieta povera di grassi.
Le molecole chiave sono i polifenoli: dotati di attività antiossidante, riducono lo stress ossidativo sistemico, abbassano l’infiammazione cronica di basso grado e modulano l’espressione genica legata alla salute endoteliale. L’acido oleico, invece, ha effetti positivi sul profilo lipidico plasmatico e sulla stabilità delle membrane cellulari.
Gli oli raffinati non offrono nulla di tutto ciò. Non esistono evidenze scientifiche che ne attestino benefici sulla salute umana. Anzi, un consumo eccessivo è stato correlato a un aumento del rischio metabolico, soprattutto per l’alto contenuto di omega-6 e la scarsa resistenza al calore.
Concludendo, scegliere un olio extravergine di qualità, quindi, è un gesto che va oltre il palato. È una forma di rispetto per il nostro corpo e per la salute, per il lavoro degli olivicoltori, per la biodiversità agricola e per il paesaggio mediterraneo.
L’Italia custodisce un patrimonio unico: oltre 500 cultivar autoctone, una pluralità di terroir e una tradizione millenaria. Acquistare extravergine da frantoio, da piccoli produttori o da cooperative trasparenti significa sostenere la filiera corta, ridurre l’impronta ecologica e garantire un prodotto autentico, riconoscibile e sicuro.
E in cucina, l’Evo non è solo un condimento. È un ingrediente nobile, che dà profondità ai piatti, li arricchisce, li protegge. A patto che sia vero, integro e non confuso con le sue copie industriali.
La scelta più sicura anche per la cottura
Per decenni si è diffusa l’idea che l’olio extravergine di oliva fosse inadatto alla cottura per via del suo punto di fumo relativamente basso. In realtà, questa convinzione si basa su una semplificazione errata. Il punto di fumo di un olio non dipende solo dalla temperatura a cui inizia a fumare, ma anche dalla composizione chimica complessiva: stabilità ossidativa, contenuto fenolico, grado di raffinazione e presenza di acidi grassi liberi. In questo senso, l’olio extravergine, nonostante un punto di fumo variabile (da 170 a oltre 200 °C a seconda della qualità), è sorprendentemente più stabile all’ossidazione termica rispetto a molti oli di semi raffinati. Gli antiossidanti naturali presenti nell’Evo, in particolare tocoferoli e polifenoli, rallentano la degradazione termica e limitano la formazione di composti tossici, come aldeidi e radicali liberi. Studi pubblicati su riviste peer-reviewed dimostrano che l’Evo mantiene un buon profilo qualitativo anche dopo fritture moderate, laddove gli oli di semi deperiscono rapidamente, formando sottoprodotti pericolosi. In cucina, quindi, l’Evo può essere utilizzato con tranquillità sia per rosolature, soffritti e stufature, sia, sempre con criterio, per fritture leggere, a patto di: non superare i 170-180 °C; non riutilizzare lo stesso olio; usare Evo fresco e filtrato, con bassa acidità e buon tenore fenolico. In sintesi, non solo l’Evo è adatto alla cottura, ma può essere la scelta più sicura dal punto di vista salutistico, proprio grazie alla sua resistenza ossidativa naturale.
Filtrato o non filtrato?
Dopo l’estrazione, l’olio extravergine appena ottenuto appare naturalmente velato o torbido per la presenza di microgocce d’acqua, frammenti solidi e microflora residua. È il cosiddetto olio “grezzo” o “non filtrato”, molto apprezzato da alcuni consumatori per il suo aspetto rustico e per gli aromi intensi, quasi vinosi, percepibili nei primi giorni. Tuttavia, da un punto di vista chimico e microbiologico, l’olio non filtrato è più instabile: l’acqua residua e le particelle in sospensione fungono da substrato per attività enzimatica e fermentazioni indesiderate, che nel tempo possono portare a difetti sensoriali come rancido, avvinato o riscaldo. Inoltre, la presenza di acqua favorisce l’idrolisi dei trigliceridi, aumentando l’acidità libera dell’olio. Il filtraggio, al contrario, consente di separare le impurità, migliorando nettamente la stabilità ossidativa e microbiologica del prodotto. Un olio ben filtrato conserva più a lungo i composti fenolici attivi, responsabili dei benefici salutistici; mantiene intatto il profilo aromatico; presenta minore rischio di decadimento qualitativo durante lo stoccaggio. Le tecniche di filtraggio possono variare: dalla semplice decantazione naturale, ai filtri a cellulosa o cartoni filtranti, fino ai sistemi a flusso tangenziale. I migliori frantoi artigianali eseguono il filtraggio entro poche ore dall’estrazione, preservando l’integrità dell’olio senza stress meccanici. In definitiva, il mito del “non filtrato è più genuino” va ridimensionato. Dal punto di vista scientifico e tecnico, un Evo di qualità dovrebbe essere sempre filtrato, salvo uso immediato entro poche settimane. È una scelta che tutela non solo la durabilità del prodotto, ma anche la salute del consumatore.