mercoledì
25 Giugno 2025
LA GUIDA

Primi piatti “freschi vs confezionati”

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Spesso l’aspetto più critico delle linee surgelate o pastorizzate è l’eccesso di sale

Screenshot 2025 05 17 Alle 17.59.55C’è un momento nella giornata in cui la cucina italiana si distingue più che in ogni altro: è quello del pranzo, quando non può mancare un primo piatto. Pasta, riso, zuppe e gnocchi sono molto più che cibo: sono tempo, storia, tradizione e gestualità. Eppure, nei ritmi serrati della vita moderna, sempre più spesso ci troviamo a sostituire il “fresco”, preparato al momento, con la versione pronta: surgelata, pastorizzata, liofilizzata o confezionata in atmosfera modificata (ATM). Ma cosa cambia davvero quando queste preparazioni ci arrivano dalla linea fredda o confezionata del supermercato anziché dalla padella fatta saltare sul fornello?[pro_ad_display_adzone id=”354232″]
Per capirlo confrontiamo tre aspetti fondamentali: il valore nutrizionale, la qualità sensoriale e l’impatto ambientale.
Per quanto riguarda il primo, è fuori di dubbio che un piatto di pasta preparato con materie prime di qualità, semmai poco raffinate e con ingredienti di stagione, mantiene intatti i micronutrienti più sensibili alla trasformazione. Le vitamine idrosolubili, come i folati o la B1, sono particolarmente vulnerabili ai processi termici intensi, alla lunga conservazione o alla surgelazione, tutti trattamenti indispensabili per garantire shelf-life lunghe e sicurezza igienica dei piatti pronti.
A questo si aggiungono altri aspetti critici: primo fra tutti l’eccesso di sale, spesso ben oltre il fabbisogno giornaliero raccomandato. Questo è dovuto a diverse ragioni quali la conservazione (il sale agisce come conservante naturale, inibendo la crescita microbica e prolungando la shelf-life del prodotto), la palatabilità (l’aggiunta di sale esalta i sapori, compensando eventuali perdite aromatiche dovute ai processi di lavorazione e conservazione) e la standardizzazione (nelle produzioni industriali, il sale contribuisce a uniformare il gusto, garantendo un’esperien- za sensoriale costante per il consumatore). E lo sappiamo bene che l’eccessivo apporto di sodio è associato a numerosi rischi per la salute, tra cui ipertensione arteriosa, malattie cardiovascolari e problemi renali. Le linee guida nutrizionali rac-
comandano un consumo massimo di 5 grammi di sale al giorno per un adulto sano.
Poi, altro aspetto critico riguarda l’impiego frequente di grassi saturi o oli di bassa qualità. Questi garantiscono stabilità termica e ossidativa durante la produzione e lo stoccaggio, cremosità e struttura stabili in condizioni di refrigerazione o congelamento e costo contenuto rispetto a grassi più nobili come olio extravergine d’oliva o burro di alta qualità.
Ancora, l’utilizzo di additivi (conservanti, stabilizzanti, emulsionanti) che, pur ammessi per legge, sono oggetto di attenzione da parte della comunità scientifica per i loro effetti a lungo termine sul microbiota intestinale.
Al contrario, un primo piatto preparato artigianalmente consente il controllo totale sulla qualità delle materie prime e sull’assenza di co- adiuvanti tecnologici.
Veniamo ora alla dimensione sensoriale, al gusto, che è un indicatore sofisticato della qualità di un piatto: non si limita al sapore, ma include consistenza, aroma, temperatura e soprattutto persistenza. Nei primi piatti freschi, la trasformazione avviene in tempo reale: la pasta cuoce al momento, la mantecatura regola l’umidità, l’olio crudo libera composti aromatici volatili.
I piatti confezionati, al contrario, risentono di precotture che alterano la struttura degli amidi, di raffreddamenti e surgelazioni che provocano sineresi nei condimenti (separazione spontanea della fase liquida da una matrice semi-solida) e dell’impiego di aromi standardizzati, spesso ricostruiti artificialmente, per compensare la perdita di sapore dovuta alla sterilizzazione o alla conservazione prolungata.
La bocca riconosce queste differenze, anche quando il palato si è abituato al gusto industriale. La memoria sensoriale, infatti, è capace di distinguere la genuinità da ciò che la imita. Un buon primo fresco, che sia un risotto tirato con brodo vero o una minestra con verdure di stagione, racconta una storia che nessuna etichetta potrà mai riportare.
Infine, parliamo di ambiente e sostenibilità: da questo punto di vista i piatti pronti hanno
un’impronta decisamente pesante. Ogni passaggio della filiera (produzione, confezionamento, refrigerazione, trasporto, conservazione domestica e rigenerazione) richiede energia, materiali e risorse. E il packaging, spesso multistrato o plastico, è difficile da smaltire correttamente.
Al contrario, un primo cucinato espresso con ingredienti locali ha un impatto minore, soprattutto se si evitano gli sprechi, si valorizzano le parti meno nobili delle verdure e si utilizzano avanzi per creare nuove preparazioni.
Per concludere quindi, in una società che tende a premiare la rapidità, cucinare un piatto di pasta (o scegliere attività artigianali che li preparino con sapienza) è un atto di consapevolezza, di resistenza, e in fondo, anche di gusto.

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Leggiamo sempre con attenzione le etichette
Secondo uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS, 2021), molti primi piatti pronti surgelati o pastorizzati contengono in media:
– il doppio del sale rispetto a una porzione casalinga (fino a 2,5 g per piatto);
– grassi saturi pari al 40–60% del fabbisogno giornaliero in una sola porzione;
– una lista ingredienti lunga anche 20 voci, tra additivi, stabilizzanti, esaltatori di sapidità e aromi artificiali.
Non solo: un’indagine dell’Efsa ha evidenziato che oltre il 60% dei consumatori sottostima il contenuto calorico dei piatti pronti, attratti da etichette fuorvianti come “leggero” o “fatto come a casa”.
Mi raccomando… leggiamo sempre con attenzione le etichette!

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