Dal formaggio di fossa allo squacquerone: Romagna patria di prelibati formaggi

Una panoramica tra i prodotti caseari della nostra terra, riconosciuti anche a livello nazionale e internazionale

La Romagna è una terra con una radicata tradizione nella produzione di formaggi e molti di questi sono riconosciuti a livello nazionale e internazionale: i cultori dei prodotti caseari non possono fare a meno di apprezzare l’astuzia rurale che ha creato il Formaggio di Fossa di Sogliano e Talamello, o i diversi pecorini dell’Appennino tosco-romagnolo e ancora i candidi e freschi Raviggiolo e Squacquerone di Romagna, semmai accostati all’intramontabile nostra piadina.
FossaOggi proviamo a raccontarne alcuni nello specifico e partiamo dal Formaggio di Fossa di Sogliano al Rubicone Dop e di Talamello: il suo nome deriva dal fatto che la sua stagionatura, oggi come nei secoli addietro, avviene in ambienti sotterranei, nelle “fosse” appunto, scavate nelle arenarie di Sogliano al Rubicone e di Talamello, zone tipiche di produzione. La consuetudine di deporre le “forme” nelle fosse per la stagionatura finale (da metà agosto al 25 novembre) era anticamente determinata dalla necessità di nascondere i caci alle razzie dei soldati, durante la guerra tra Carlo VII di Francia e Ferdinando di Napoli. E come allora, le fosse oggi hanno una tipica forma a fiasco e sono profonde circa tre metri, con una base di due metri di diametro e un’imboccatura di circa 80 cm. Ogni anno, prima di ospitare le forme, queste vengono aperte e disinfettate con un fuoco di rami e sterpaglie, poi, dopo avervi introdotto una intelaiatura di canne, si ricoprono le pareti di paglia fresca e il fondo di tavole di legno. Solo ora può avere inizio il rito che vuole i caci racchiusi in sacchi di tela bianca e sapientemente messi a dimora uno sull’altro nella fossa. Raggiunta l’apertura, si ricopre tutto con altre tavole di legno e sabbia. Dopo 3 mesi, dopo la sfossatura rigorosamente praticata il giorno di Santa Caterina, i formaggi avranno forme irregolari caratterizzate da arrotondamenti e depressioni, un colore dal bianco avorio al giallo ambrato, una superficie umida e grassa, spesso solcata da screpolature e macchie giallo ocra, forse un po’ di muffa facilmente asportabile con una leggera raschiatura in superficie. Ma la grande ricchezza sarà nei sentori caratteristici e persistenti, intensi, ricchi di aromi che ricordano il sottobosco con note erbacee e di tartufo. Il sapore invece andrà dal dolce al piccante o all’amarognolo a seconda del latte usato e delle fosse stesse.
E proprio a proposito di latte va tenuto presente che il formaggio di fossa può essere di pura pecora o misto (ovverosia di latte vaccino e di pecora).
Infine le tre regole della tradizione, quelle da cui un bravo infossatore deve partire per ottenere un prodotto fedele alla sua storia e alla sua tradizione:
si infossa solo formaggio prodotto nei mesi di aprile-maggio; si infossa solo formaggio che abbia tre mesi di stagionatura; si infossa una sola volta all’anno.

Sempre restando fra gli stagionati, un altro formaggio di cui la Romagna può vantarsi è la Caciotta di Montemauro. Certamente meno conosciuto di quello precedente, questo è un prodotto tipico del periodo che va da fine ottobre a fine giugno e localizzato nel comune di Brisighella, località Montemauro. Dopo una maturazione di circa 40 giorni e una stagionatura che può arrivare anche ai 7/8 mesi, questa caciotta viene messa sul mercato in forme che vanno dagli 800 grammi ai 2.5 kg. Circa il sapore va detto che risulta più dolce del pecorino per la presenza del latte di bufala che la rende fresca anche se stagionata, con una leggera punta acida. L’odore è molto gradevolmente aromatico
Ora, prima di passare ai formaggi freschi, credo che sia doveroso citare il pecorino ed in particolare due sue interessanti variati tipiche del nostro territorio: il Pecorino Ubriacone stagionato in vinaccia e il Pecorino alle Noci la cui stagionatura avviene sotto le foglie di noce, da cui assorbono un gusto particolare.

Squacquerone E adesso lo squacquerone. Lo Squacquerone di Romagna, in dialetto Squaquaròn, ha origini antiche e certamente legate all’ambiente rurale: in passato era consuetudine produrlo, e quindi consumarlo, solo durante i mesi freddi perchè solo così poteva essere conservato per almeno una decina di giorni.
Sia che il suo nome venga scritto con una sola “q”, oppure con “cq”, a seconda della zona in cui ci si trova, il modo migliore per far emergere la sua delicata e cremosa consistenza, per esaltare la sua bontà, è quello di accostarlo alla piadina. Per ciò che riguarda la sua geografia invece, questo formaggio è tipico del territorio di Forlì-Cesena, del riminese, del ravennate e della zona di Imola.
Nel “Grande dizionario (e ricettario) gastronomico romagnolo” G. Quondamatteo, nel 1978, poeticamente ci insegna: «Fa in modo che la piada sia stata tolta da poco dal testo, e che sia piada morbida, pastosa e non friabile e dura come l’ostia. Tagliata a metà, e non a quadri, piegala al modo d’un libro. Riaprila, stendendovi sopra da una sola parte e usando il coltello a mo’ di spatola, il formaggio Squacquarone. Richiudi, e lievemente premi il cassone con il palmo della mano. Riaprilo ancora, ma appena, per assicurarti che lo Squacquarone ha fatto presa contro le superfici interne della piada e che comincia a fare i “fili”. Resoti conto che i fili ci sono e che essi, elastici, sottili, si allungano e si accorciano, secondo la molta o poca apertura che dai al cassone, fa mente locale e concentrati. Richiudi definitivamente il cassone e, impugnandolo con ambo le mani, mordi. Chiudi gli occhi. Questo è il momento. Addenta una, due volte. Non mandare giù subito il boccone. Al tepore della piada che ti scalda la bocca, si accompagna la fresca liquidità dello Squacquarone che ti viene incontro…».
L’origine del suo nome? Scartata l’ipotesi che possa derivare dal “gagliardo e sgangherato” modo di ridere in uso nelle vecchie famiglie contadine delle nostre campagne, la derivazione di questo vocabolo va ricercata nella sua caratteristica principale, la “squagliabilità”: lo squacquerone è infatti un formaggio talmente molle che non riesce a mantenere nessuna forma.
Si ottiene aggiungendo il caglio al latte vaccino, intero e a crudo; dopo la coagulazione, la cagliata viene rotta e separata dal siero in eccesso. A questo punto si distribuisce la massa in appositi stampi e si procede alla “stufatura”, passaggio questo che avviene in ambienti molto caldi e umidi, e che serve a far raggiungere al formaggio la sua giusta consistenza. Si conclude con la salatura che, secondo la tradizione, vuole solo il Sale Dolce di Cervia. Le forme, infine, vengono fatte maturare avvolte in carta e ad una temperatura di 3-4 °C per circa 5 giorni.
Sulle nostre tavole si presenta privo di crosta e dal tipico colore bianco madreperlaceo; il suo leggero retrogusto acidulo si presta ad abbinamenti gastronomici anche “audaci”, come con fichi caramellati o il miele d’acacia.

Raviggiolo E concludiamo con il Raviggiolo: la sua origine è da collocare nelle zone appenniniche che separano la Romagna dalla Toscana; sul nostro versante, viene storicamente preparato nell’area dei Comuni di Bagno di Romagna, Portico e San Benedetto, Premilcuore e Santa Sofia, Brisighella, Faenza e Modigliana.
Il primo documento in cui viene citato risale al 1515 e riporta l’episodio in cui ne fu donato un canestro a Papa Leone X; Pellegrino Artusi lo indica invece nel suo testo “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” come ingrediente indispensabile per il ripieno dei “Cappelletti”.
Sempre presente attraverso i secoli sulle tavole imbandite sia dei ceti abbienti che delle famiglie più modeste, il Raviggiolo, tipicamente presentato su un letto di foglie di felce, dal 1998 è stato iscritto nell’elenco dei Prodotto Agroalimentari Tradizionali Italiani. Si tratta di un prodotto fresco, molle a pasta bianca e senza crosta, ottenuto dalla cagliatura di latte crudo, solitamente vaccino, più raramente ovi-caprino, di esclusiva provenienza locale.
La sua produzione comincia subito dopo la mungitura, quando il latte inizia a raffreddarsi; in circa 30 minuti si forma la cagliata. Questa, a differenza di molto altri formaggi, non viene rotta, ma prelevata in piccole quantità con un mestolo che la tradizione vorrebbe di legno: oggi per ragioni igieniche si usa l’acciaio.
Adagiati in piccole forme e avvolti in foglie di fico, di cavolo o di felce (da cui il termine “felciata”, usato come sinonimo di Raviggiolo), funzionali all’eliminazione del siero e in grado di donare al formaggio aromi particolari, i Raviggioli sono pronti per la commercializzazione e per il consumo che deve avvenire entro cinque giorni dalla caseificazione. In alcuni casi si effettua anche una leggera salatura in superficie. Viste le sue rigide esigenze di conservazione e tenendo presente che viene prodotto in modo esclusivamente artigianale, il periodo di produzione del Raviggiolo va solitamente da ottobre fino a marzo, facendone un formaggio tipico delle stagioni più fredde. Sulle nostre tavole arriva in forme rotondeggianti di altezza variabile tra i 2 e i 4 centimetri, con un diametro compreso tra i 15 e i 25 ed un peso che va dal chilo al chilo e mezzo. Bianco come il latte, tenerissimo, dal gusto dolce e delicato, quasi burroso, di un sapore inconfondibile e prelibato, nei secoli il Raviggiolo ha acquisito una tale popolarità che, ancora oggi, viene citato nel proverbio romagnolo che recita “chi non è marzolino sarà raviggiolo”, ad indicare la fatalità del destino.

 

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