Romagna, patria del cappelletto

Differenze e somiglianze nel piatto della festa per eccellenza, da secoli

Cappelletti in brodo

 

A pochi giorni dal trofeo del Cappelletto d’oro e in attesa della seconda festa dedicata al cappelletto di Ravenna, ecco un approfondimento su uno dei simboli della gastronomia della Romagna.

«Il giorno di Natale – si legge in un rapporto napoleonico del 1811 redatto dall’allora prefetto di Forlì Leopoldo Staurenghi – ogni famiglia si fa una minestra di pasta col ripieno di ricotta, che chiamasi cappelletti. L’avidità di tale minestra è così generale che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggiore quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500. Questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per le forti indigestioni».
Di una minestra «composta di ricotta, formaggio, uova e aromi, il tutto avvolto in pasta detta spoglia da lasagne» ci racconta qualche anno dopo, nel 1818, il forlivese Michele Placucci nel suo Usi e pregiudizi de’ contadini della Romagna. Sono quindi almeno due secoli che i cappelletti costituiscono uno dei tratti distintivi della Romagna.

Ora però può sorgere spontanea una domanda: stiamo parlando di una Romagna tutta unita e d’accordo circa la ricetta del suo, e solo suo, cappelletto? Come tutti sappiamo, la risposta è no.
È vero, la sfoglia è una, fatta di farina di grano tenero e uova, né troppo morbida né troppo soda, omogenea e consistente come unici sono anche gli strumenti, tagliere di legno e matterello. Pochi problemi poi sulla noce moscata (non deve assolutamente mancare) e sull’uso parsimonioso del sale. Quasi tutti d’accordo anche sul fatto che i cappelletti presuppongono la presenza di un’azdòra che tiri la sfoglia e li prepari a mano, chiudendoli a uno a uno. Idem per la loro forma, bella piena, dalla “testa grossa”, quella che ricorda la “galoza”, un copricapo ad ali indossato dalla gente di campagna, un po’ goffo con poca tesa e cupolone abbondante.

È invece sul contenuto che la Romagna si divide, sul battuto, sul compenso e qui, i cappelletti di magro, cioè quelli ripieni di solo formaggio, entrano in conflitto con quelli che prevedono anche la carne. Da non confondere con quello del cugino bolognese, del tortellino, che è altra cosa, nel ravennate e nel cesenate prevalgono i soli formaggi: forma (Parmigiano o Grana), ovviamente, con l’aggiunta di un formaggio morbido che può essere la ricotta, il raviggiolo o la casatella. Nel forlivese e nel riminese invece si utilizzano anche carni leggere: petto di cappone, vitello, lonza e mortadella.
Le varianti sono davvero tante, forse una per ciascuna famiglia o casata.

A mano a mano poi che ci si allontanano dalla loro terra d’origine,  i cappelletti finiscono fatalmente per subire alterazioni tali da renderli irriconoscibili: troviamo versioni nel Reggiano col ripieno di stracotto di manzo, nelle Marche fra Pesaro e il Montefeltro con carne di maiale, cappone o tacchino e midollo di bue, e anche in Umbria, noti con il nome di Cappelletti di Gubbio, con battuto di carni magre assortite, cotti e mangiati nel brodo di pollo.

Tornando a noi, non dimentichiamo che quella dei cappelletti asciutti col ragù è un’usanza che ha preso piede negli ultimi decenni, ma che non tutti i buongustai apprezzano. Si tratta né più né meno, affermano, di una storpiatura dovuta alla ristorazione di massa. Sì, perchè i puristi sostengono che la fine gloriosa del cappelletto (e io sto con loro) sta in un buon brodo di carne di manzo e di cappone. Ora un’ultima cosa da non dimenticare: è un errore cospargerli di formaggio grattugiato perché il loro sapore non ha bisogno di nient’altro per risultare perfetto!

Il rituale: il cappelletto matto
Come non citare  l’antico rito secondo il quale alcune azdòre, per dare un tono di allegria tra i commensali, in mezzo ai tanti cappelletti col ripieno, ne preparavano uno di sola pasta: il cosiddetto “cappelletto matto”. Lo stesso titolo passava per quel giorno, tra le risa di tutti, a chi lo trovava nel proprio piatto.

Il racconto: un “fatterello” dell’Artusi
Scrive Pellegrino Artusi: «A proposito di questa minestra vi narrerò un fatterello, se vogliamo di poca importanza, ma che può dare argomento a riflettere. Avete dunque a sapere che di lambiccarsi il cervello su’ libri i signori di Romagna non ne vogliono saper buccicata, forse perché fino dall’infanzia i figli si avvezzano a vedere i genitori a tutt’altro intenti che a sfogliar libri e fors’anche perché, essendo paese ove si può far vita gaudente con poco, non si crede necessaria tanta istruzione; quindi il novanta per cento, a dir poco, dei giovanetti, quando hanno fatto le ginnasiali, si buttano sull’imbraca, e avete un bel tirare per la cavezza ché non si muovono. Fino a questo punto arrivarono col figlio Carlino, marito e moglie, in un villaggio della bassa Romagna; ma il padre che la pretendeva a progressista, benché potesse lasciare il figliuolo a sufficienza provvisto avrebbe pur desiderato di farne un avvocato e, chi sa, fors’anche un deputato, perché da quello a questo è breve il passo. Dopo molti discorsi, consigli e contrasti in famiglia fu deciso il gran distacco per mandar Carlino a proseguire gli studi in una grande città, e siccome Ferrara era la più vicina per questo fu preferita. Il padre ve lo condusse, ma col cuore gonfio di duolo avendolo dovuto strappare dal seno della tenera mamma che lo bagnava di pianto. Non era anco scorsa intera la settimana quando i genitori si erano messi a tavola sopra una minestra di cappelletti, e dopo un lungo silenzio e qualche sospiro la buona madre proruppe: «Oh se ci fosse stato il nostro Carlino cui i cappelletti piacevano tanto!». Erano appena proferite queste parole che si sente picchiare all’uscio di strada, e dopo un momento, ecco Carlino slanciarsi tutto festevole in mezzo alla sala. «Oh! cavallo di ritorno, esclama il babbo, cos’è stato?» «È stato – risponde Carlino – che il marcire sui libri non è affare per me e che mi farò tagliare a pezzi piuttosto che ritornare in quella galera». La buona mamma gongolante di gioia corse ad abbracciare il figliuolo e rivolta al marito: «Lascialo fare, disse, meglio un asino vivo che un dottore morto; avrà abbastanza di che occuparsi co’ suoi interessi». Infatti, d’allora in poi gl’interessi di Carlino furono un fucile e un cane da caccia, un focoso cavallo attaccato a un bel baroccino e continui assalti alle giovani contadine.

La ricetta: i cappelletti secondo l’Artusi
Ecco cosa scriveva l’Artusi sui cappelletti, da leggere tenendo bene a mente però che non rappresenta le usanze della Romagna a tavola ma il mangiare borghese del centro-nord d’Italia. «Sono così chiamati per la loro forma a cappello. Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco.
Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180. Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta. Parmigiano grattato, grammi 30. Uova, uno intero e un rosso. Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace. Un pizzico di sale. Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo. Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera. Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riescisse troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e tagliatela con un disco rotondo della grandezza come quello segnato (N.B. circa 6 cm di diametro). Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed avrete il cappelletto compito. Se la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell’acqua, gli orli dei dischi. Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini. Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine».

La ricetta: il buon brodo (anche) da gallina vecchia

Ci sono parecchi modi di fare il brodo e la buona riuscita di questo dipende non solo dagli ingredienti ma anche da come li si gestisce. La regola principale è mettere  la carne nell’acqua fredda e salata, portando il liquido lentamente a ebollizione e schiumando spesso in superficie con un mestolo forato. Questo procedimento fa sì che la carne ceda al brodo le sue sostanze proteiche e lo renda più saporito e nutriente. Al contrario, mettendo la carne nell’acqua bollente, si otterrebbe un ottimo lesso (o bollito) ma un brodo insapore. Oltre alla carne vanno aggiunte le basi aromatiche (sedano, carota, cipolla, gambi di prezzemolo), sale, pepe in grani e, a chi piace, anche una foglia di alloro e qualche chiodo di garofano. La cottura dovrà essere lenta e prolungata (da tre ore fino a 6 a seconda della quantità di carne e di acqua), mantenendo al liquido una ebollizione leggera e costante. Prima di utilizzare il brodo, infine, sarà bene filtrarlo attraverso un colino a maglie fitte o un panno bagnato e ben strizzato: in questo modo il nostro brodo risulterà ben limpido. Le parti del manzo e del vitello che danno un migliore sapore sono la spuntatura delle coste, il girello, la rosa, la spuntatura del lombo, il piccione, il fianchetto, la coda, la lingua e lo stinco.  Il manzo fornisce naturalmente un brodo più scuro, ma anche più aromatico e sostanzioso, mentre dal vitello si ottiene un brodo leggero e delicato. Di solito si dà preferenza al primo salvo nei casi in cui il brodo sia riservato a persone che, per motivi di salute, debbano mangiare molto leggero. Inoltre, è usanza abbastanza diffusa, aggiungere alla carne anche un piccolo osso, ancor meglio se con il midollo. Da ultimo, mai deve mancare un pezzo di gallina vecchia che, risaputamente “fa buon brodo!”, o di cappone. Per quanto riguarda i quantitativi, di acqua e altri ingredienti, va tenuto presente che ogni mezzo chilo di carne richiede oltre due litri di acqua, più una carota, due coste di sedano, un paio di gambi di prezzemolo o un mazzetto guarnito, una cipolla, un chiodo di garofano, un paio di pomodorini rossi e non sbucciati (ciò renderà il brodo più limpido), una manciata di sale e un paio di granelli di pepe.

CONAD INSTAGRAM BILLB 01 01 – 31 12 24
EROSANTEROS POLIS BILLBOARD 15 04 – 12 05 24
MAR MOSTRA SALGADO BILLB 15 – 21 04 24
INCANTO BILLB 19 04 – 01 05 24