Pasqua, a tavola si celebra la Rinascita

I significati storici, simbolici e rituali dei piatti della tradizione in Romagna

CosciodiagnelloDa sempre Natale e Pasqua scandiscono il succedersi delle stagioni e, con i loro riti e le tradizioni legate alla tavola, celebrano sì due momenti cardine della cristianità, ma suggellano anche due importanti transizioni: il passaggio tra l’autunno e l’inverno, segnato dal solstizio che vede il punto più basso del cammino del sole, e l’arrivo della primavera (la Pasqua cade la prima domenica dopo il plenilunio seguente all’equinozio del 21 marzo). E questi due momenti così diversi, quello in cui la natura “va a dormire” prima e rinasce poi, li ritroviamo molto chiaramente anche nella tradizione legata al cibo.

Se il Natale infatti è il trionfo di autunno e inverno e dei loro frutti, il menù pasquale richiama di più la freschezza e la rinascita della natura.

Poi c’è un altro aspetto, forse ancora più importante, che distingue le due tavole delle feste: il pranzo di Natale si rifà principalmente a tradizioni gastronomiche di origine popolare e contadina, cappelletti, cappone, arrosti, torrone.., mentre il pranzo di Pasqua ha un valore sacrale e simbolico estremamente pronunciato. Si può quasi dire che la tavola di Pasqua sia più un rito che un pranzo.

E cominciamo con l’uovo, da sempre immagine della vita. In molte tradizioni e filosofie anche precristiane l’uovo è il simbolo dell’unità, della perfezione, della nascita e dell’eterno ritorno. In quella cristiana, questo eterno ritorno è la Resurrezione di Cristo: il guscio rappresenta il sepolcro che si “rompe” dentro il quale si ritrova la vita. E praticamente su tutto il territorio nazionale, fino a pochi decenni fa, l’uovo, benedetto in chiesa nella settimana precedente alla domenica pasquale, si faceva sodo e veniva messo nel piatto del commensale. In silenzio, dopo la preghiera, ognuno lo ripuliva dal guscio lo consumava. Così si dava inizio ad ogni pranzo di Pasqua. Poi, tradizione voleva che il guscio non si buttasse nell’immondizia, ma venisse bruciato nel camino, in quanto parte di un’unità benedetta.

Quello a seguire era il pranzo vero e proprio e negli antipasti faceva da padrone i tutto ciò che si trovava di stagionale, erbe e carciofi, gli stridoli, i piselli, gli asparagi insieme agli affettati. Mai mancava il salame che molti avevano già consumato a colazione con la pagnotta pasquale. Circa i primi piatti, insieme agli immancabili passatelli, caldi e rassicuranti, ricchi di uova, formaggio, pane e noce moscata, profumati, si potevano trovare le lasagne verdi, le tagliatelle o gli strozzapreti, magari al ragù o con condimenti di verdure.

Al posto dei passatelli però poteva esserci la più originale zuppa imperiale: un composto dei medesimi ingredienti con l’aggiunta del semolino, cotto al forno, tagliato a tocchetti e servito nel brodo di carne.

Non si scappava, invece, sul piatto principale: l’agnello. Anche in questo caso, rispetto al Natale, il valore simbolico del pranzo è ben evidente: nel piatto si fondevano due tradizioni, quella ebraica, e quella cristiana. La parola Pasqua deriva infatti dall’ebraico “Pesach”, che significa passaggio e commemora l’esodo degli ebrei dall’Egitto attraverso il passaggio del Maro Rosso. Quella notte le famiglie degli ebrei consumarono un pranzo veloce a base di carne d’agnello ed erbe amare, e poi fuggirono. Da non trascurare poi che il signore aveva ordinato al suo popolo di marcare gli stipiti delle loro porte con del sangue di agnello in modo che l’angelo sterminatore potesse riconoscerle ed evitarle, uccidendo invece i primogeniti d’Egitto. L’agnello era una ricchezza per le popolazioni, come quelle semitiche, dedite alla pastorizia, e per questo era l’animale destinato al sacrificio. L’agnello di Dio infine, Cristo, è anche il simbolo della Pasqua cristiana, il sacrificio per eccellenza. Quindi mangiare l’agnello è consacrare sia rituali ebraici che cristiani.

Andando ora su preparazioni più locali, e quindi caratteristiche di areali piccoli e ben delineati, possiamo ricordare la torta al formaggio tipica di Rimini che risentiva dell’influsso del Montefeltro.

Passatelli In brodo di pesceE ancora è importante ricordare che sulla costa la Pasqua era, e lo è ancora oggi, anche “di mare”, di quel mare nostrum, l’Adriatico, che in questo periodo dell’anno offre bianchetti, sgombri, mormore, ma anche granceole e lumachini. Ed ecco allora che i passatelli venivano cotti in brodo di pesce, che come secondo si preparavano le seppie in umido con piselli. Anche il brodetto era un classico, un piatto povero dei pescatori locali ma buonissimo! Si otteneva con diverse varietà di pesce fresco lasciate cucinare in una casseruola a fuoco basso insieme a olio, cipolla, aglio, conserva e vino bianco.

Infine, un pranzo di Pasqua romagnolo, soprattutto in collina, non poteva essere considerato tale se sulla tavola mancava una bella fetta di pagnotta pasquale: dolce tipico della tradizione che si mangiava al mattino con l’uovo benedetto. In pratica si trattava di una ciambella ed era originaria della zona di Sarsina.

 

Nel dettaglio: La pagnotta di Sarsina

La pagnotta è un tipico dolce di Sarsina e dintorni, che un tempo s’identificava con la stessa festività pasquale ed allietava anche la tavola dei più poveri.

Si cominciava a mangiarla, insieme all’uovo benedetto, la mattina del giorno di festa e si proseguiva a gustarla ai pasti anche nei giorni successivi, sino alla domenica dopo e anche oltre.

Ogni componente della famiglia ne aveva di solito una a disposizione, e non era poco, trattandosi d’una pagnotta di tre-quattro chili.

Nelle campagne della media Valle del Savio si preparavano anche in misure più ridotte e in forme cilindriche varie.

A Sarsina la pagnotta si fa ancora durante il periodo quaresimale presso i fornai locali.

Questa è la ricetta tradizionale, pubblicata da Vittorio Tonelli nel suo libro “A tavola con il contadino romagnolo” – Imola 1986, p. 192:

– due chili di farina di grano;

– uno di pasta lievitata;

– sette etti di zucchero;

– un etto mezzo di strutto (o margarina);

– dieci uova;

– buccia grattugiata di due o tre limoni;

– due bustine di vaniglia;

– un pugno di lievito di birra;

– un pizzico di sale e, volendo, dell’uva secca.

L’impasto, a forma di cupola, si lascia lievitare ore e ore, in attesa della cottura, che dovrà avvenire a fuoco lento, nel forno, sopra fogli di carta straccia. Prima, però, va “pennellato” con uova sbattute e superficialmente tagliato in alto perché abbia a “fioccare” bene.

A cottura ultimata (dopo un’ora circa), la pagnotta si presenta nella sua profumata mole marroncina, alta venti centimetri e con un diametro base di quaranta.

Un momento delicato e importante è quello ella lievitazione, che necessita di un ambiente caldo a temperatura costante. Anni fa le forme impastate si mettevano, addirittura, a lievitare nel letto, col “prete”, il quale non era altro che un vecchio attrezzo di legno ricurvo atto ad impedire alle lenzuola di bruciarsi a contatto col recipiente ripieno di carbone acceso.

La curiosità: E “lampèz”

Nelle case di campagna delle colline romagnole sopravvive qua e là la tradizione del lampéz, letteralmente “lampeggiare”. Un gioco per bambini, e una prelibatezza per gli adulti. Mentre l’agnello rosola sul girarrosto, girando sopra le braci del camino, si avvolge del lardo in un foglio di carta oleata, lo si infilza su uno spiedo e lo si mette nella fiamma. Quando brucia lo si alza sopra la carne. Il fuoco scioglie il lardo che cade a gocce sull’agnello facendo delle piccole fiammelle.

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