martedì
08 Luglio 2025
diario di viaggio

«Correre fa schifo e non ha alcun senso»

Come fare 250km nel deserto in autosufficienza alimentare, giurare di non farlo più, salvo poi rifarlo alla prima occasione

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Abbiamo chiesto ad Alberto Marchesani, 46enne ravennate esperto di comunicazione e ormai anche di ultramaratone, di raccontarci com’è andata la sua ultima avventura nel deserto africano. Ha accettato.

Correre è faticoso. Farlo con uno zaino pesante sulle spalle, fra le dune di un caldissimo e sabbioso deserto per 250 km rende l’impresa folle e senza senso. E infatti decido di iscrivermi alla Racing the Planet Namibia. Queste corse nel deserto in autosufficienza le conosco, ho partecipato alla corsa regina di questo genere nel 2022: la Marathon des Sables che si svolge nel Sahara marocchino al confine con l’Algeria. Questa volta tocca il deserto della Namibia.

Le regole sono sempre le stesse: ogni iscritto deve avere nel proprio zaino tutto quello che serve per correre e sopravvivere una settimana intera a eccezione dell’acqua e della tenda, le uniche cose che fornisce l’organizzazione, oltre a segnalare il percorso e a fornire supporto in caso di emergenza.

Le istruzioni sono chiare: il tale giorno l’atleta (ci chiamano così) si faccia trovare nel tale hotel di Swakopmund, città costiera namibiana. Appena arrivati c’è il controllo degli zaini da parte dello staff. Si assicurano che chi ha deciso di partire abbia con sé tutto il necessario: sacco a pelo, cibo sufficiente, abbigliamento, prodotti per la cura dei piedi, kit di emergenza, eccetera. Il giorno seguente dei bus portano i partecipanti al primo campo tendato. Il giorno successivo, da quel campo, parte la Racing the Planet Namibia, la corsa in 6 tappe (le prime 4 da 40km, la quinta da 80 e l’ultima da 10km) in autosufficienza.

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Alberto Marchesani in Namibia (foto Thiago Diz)

La prima tappa parte facile, terreno compatto e pianeggiante, ambiente familiare che ricorda le saline di Cervia: aironi, salicornia, arietta fresca. Inizio a pensare che quando la direttrice di gara ci aveva detto il giorno prima «tenetevi caro questo fresco che c’è qui» forse stava solo facendo un po’ di allarmismo gratuito.
Lo zaino è pesante perché c’è tutto ancora dentro, però si corre e si corre veloce. Almeno per i primi 20km, finché poi finiscono le saline, finisce l’arietta fresca, finisce tutto e arriva il caldo disumano e atroce. Il caldo spaventoso. Il caldo che chi non l’ha provato, non sa cosa sia. Ecco, quello che per noi lì era “caldo”, in confrontato con quello che avremmo trovato dopo non era niente.
Sull’ultimo aereo per arrivare in Namibia ho conosciuto un concorrente che proveniva da Boston. Era uno tosto, uno che aveva fatto il “4 desert grand slam”, aveva corso nel Gobi, nell’Atacama, in Namibia e in Antartide in un anno. Ora tornava in Namibia. Arrivati all’uscita dell’aereo, mi dice: «E questo cos’è? Questo caldo che roba è!?». Si è fatto portare in hotel e da lì non è più uscito. Non è mai partito per la corsa. Dopo la prima tappa inizio a pensare che non avesse tutti i torti.

La seconda tappa viene modificata per non farci passare nei canyon dove la rifrazione del calore delle rocce avrebbe reso l’aria troppo calda. Questa premura non la rende tanto facile comunque. Le prime ore riesco a correre, ai ristori cerco di abbassare la temperatura corporea bagnandomi testa e polsi, ma quando il sole è caldo, non corro più. Porto semplicemente lo zaino da un ristoro all’altro, ogni 10 km, affondando la scarpa nella sabbia. Bevo, mi raffreddo e riparto. Così si arriva alla fine di una tappa.
Arrivato al bivacco, mi rendo conto che la mia pianificazione è totalmente saltata. Credevo di correre molto e quindi di mangiare molto sia lungo le tappe che ai bivacchi. Invece si mangia poco e si consumano molti sali. Ho due alternative: o provo a correre nonostante tutto sfidando il caldo e l’ambiente oppure l’affronto in maniera diversa: rallentando la corsa, anche se significa stare più ore al sole, e cercare di vedere come va. Ho scelto la seconda opzione e si è rivelata, per me, quella giusta. Alcuni atleti forti non hanno rimodulato la corsa e hanno continuato a spingere al massimo, li abbiamo lasciati disidratati per strada.

La mattina della terza tappa anche lo staff è preoccupato. La direttrice della corsa dice che, oltre ai check-point ogni 10 km circa, hanno aggiunto dei punti acqua che è una cosa eccezionale per corse di questo genere. Poi il medico della corsa ci parla dei rischi della disidratazione, dei colpi di calore, dell’assicurarsi di partire sempre da ogni check-point con almeno 4 litri di acqua per affrontare il percorso fino al prossimo rifornimento. Vedere loro allarmati, rende noi allarmati.
La tappa inizia alle 8 del mattino, già alle 10 l’aria brucia. Dopo il primo checkpoint e il primo punto acqua, arranco. La pelle scotta e mi rendo conto che i miei sali portati da casa, non sono sufficienti per affrontare quella cosa lì. Arrivati a un check-point all’apice di una collina, all’ombra si stava quasi bene, ci si rinfresca e si riprende fiato. Il benessere dura poco però: mentre siamo lì il medico dice: «Là sotto – indicando la valle sottostante – fa molto caldo. Assicuratevi di partire da qui solo se state bene, avete acqua e ve la sentite» e conclude con un laconico «manage your self». Io scendo piano piano e a un certo punto ho la stessa sensazione di quando apro il forno di casa caldo e tengo la faccia troppo vicino e mi arriva la folata di caldo in faccia.
Riesco ad arrivare all’arrivo, stremato. Bevo, mi rinfresco e mi curo i piedi. Preparo il pranzo e la cena come ogni giorno con le mie buste di liofilizzati. Mi corico e tengo i piedi alti, sperando che questo aiuti a sgonfiarli. Chiedo allo staff dei sali extra, mi vengono dati e mi viene assegnata una penalità, è la regola.

La quarta tappa prevede 40 km, quando partiamo il caldo non è ancora salito ma nessuno si fa prendere dall’entusiasmo. Sappiamo tutti cosa accadrà da lì a qualche ora. Infatti accade. Dentro una valle stretta arriva il caldo mostruoso. Ai ristori mi fermo e bevo molto ma non sembra funzionare troppo. Non sono lucido e appena vedo un albero, forse l’unico albero, lo raggiungo uscendo di poco dal percorso, mi ci ficco sotto per riprendere fiato all’ombra. Resto qualche secondo, quando penso di essere pronto a ripartire, faccio un passo. Sento una scossa elettrica che mi sale dal piede destro, si propaga lungo la gamba, arriva al braccio e mi fa tremare la mano. Capisco di aver pestato una spina appuntita che mi ha bucato la scarpa. Il primo pensiero è stato: ecco l’onorevole motivazione per ritirarmi. Ho un piede ferito. Come faccio a correre così? Arranco e torno verso il tracciato cercando di non appoggiare il piede dove sento che c’è ancora la spina che mi ha bucato la scarpa. Mi raggiunge un auto dello staff. Chiedo aiuto e pregusto il momento in cui mi caricheranno nel cassone del van e mi porteranno al bivacco. Mi guardano la scarpa, con una pinza e tanta forza mi sfilano la spina. Dico loro che è meglio non togliermi la scarpa perché rischio di perdere molto sangue. Loro insistono e mi aiutano nella lunga operazione. Scopro che non c’è nessuna ferita. La spina ha forato il fondo della scarpa, mi ha punto ma non ferito. Mi rimetto la scarpa e torno correre, deluso ma anche un po’ sollevato.

La quinta tappa è quella di 80 km. Si hanno due giorni per farla, si può scegliere se tirare dritti fino all’arrivo oppure fermarsi la sera a un check-point, dormire e partire l’indomani. Parto correndo forte, inspiegabilmente. Al secondo check-point al caldo si aggiunge un forte vento contrario. Fino a quel punto ho sempre corso da solo perché io faccio così. Corro da solo, parlo poco, do poca confidenza agli altri. È tutta fatica, in contesti del genere si deve risparmiare tutto quello che si può. È il momento però di rivedere anche questa cosa. Non si affronta una tappa così lunga, in condizioni così estreme da soli. Mi si avvicina Ibrahim, un turco-tedesco che mi spiega con un gesto che possiamo procedere assieme. Ibrahim ha due grandi doti: è un camminatore instancabile e non parla nessuna lingua che anche io conosco. Penso che faremo una gran tappa assieme. E così sarà: camminiamo quando il sole è alto, lui avanti e io dietro. Ai ristori, a gesti, concordiamo quanto stare fermi. Ci scambiamo il cibo, idea ottima sopratutto per cambiare i sapori in bocca. Ci raggiunge il tramonto che siamo al 50esimo chilometro. L’aria rinfresca, ci mettiamo le frontali in testa, la lucetta dietro lo zaino e succede l’impensabile: io corro davanti e Ibrahim mi segue dietro. Passiamo i check-point fermandoci solo il tempo strettamente necessario per i rifornimenti d’acqua, niente pause, niente riposi. Corriamo nella sabbia, dopo 50 km, dopo 60km. Corriamo così bene che l’ultimo check-point lo saltiamo e tiriamo dritti, correndo a tutto fiato verso l’arrivo che raggiungiamo alle 11 di sera. 15 ore dopo la partenza. Arrivati lì è chiaro a tutti che la corsa è finita. Il giorno dopo c’è solo da aspettare chi ha diviso la tappa in due parti. Si fa festa agli ultimi che arrivano, stremati ma felici.

L’ultimo giorno è quello della tappa breve, 10 km sul letto di un fiume fino alla città del primo hotel, con l’arrivo in spiaggia. La si corre a zaino praticamente vuoto con tutto il fiato e l’ultima energia che si ha.

La gioia arriva con la medaglia al collo ma presto mi raggiungono le domande sul senso di fare queste corse, sull’enorme fatica che ci auto infliggiamo quando già il mondo in cui viviamo tutti i giorni è così matto. Nel mio caso l’indomani mi raggiungeranno gli incubi che ogni volta, dopo queste corse, mi vengono a fare visita. Sogno che mentre sto correndo le dune diventano onde e non riesco a stare in piedi oppure che vengo rapito da non so chi, oppure sogno che corro, sono sfinito e non riesco a fermarmi.
Chi fa queste esperienze sa che ha vissuto una esperienza “straordinaria”, cioè all’infuori dell’ordinario e sa che c’è di che essere grati. I giuramenti fatti, tutti quei “mai più” detti nei giorni della corsa sono già annebbiati nella memoria e tanti dei concorrenti che erano con me, la sera stessa dell’arrivo stanno già pensando alla prossima scemenza da fare.
Io resisto un po’ ma appena arrivato a casa, con lo zaino ancora da disfare, mi sono iscritto alla 100km del Passatore, una grande tradizione per il podismo romagnolo.

Se mi si chiede cosa spinge delle persone normali a fare cose genere, a forsennarsi così, non so dare una risposta. Forse ha a che fare con questioni ancestrali ma credo che anche questa risposta sia solo una scusa per non dare la risposta.

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