«L’Europa è costretta alla difesa ora che Trump punta a dividere Russia e Cina»

Il professor Marchi, docente di Storia contemporanea all’università di Ravenna, osserva lo scenario in evoluzione: «Le decisioni dell’Unione non sono mai veloci, il riarmo potrebbe cambiare. Si fa largo la possibilità degli Eurobond»

Europa

Keir Starmer e Emmanuel Macron, primo ministro del Regno Unito e presidente della Francia

«Le mosse dell’Unione europea non sono mai velocissime. Non è da escludere che il piano di riarmo di cui si parla ora possa avere un percorso simile a quello che è stato per il Next Generation: la versione finale da cui è nato il Pnrr italiano è stata molto diversa dall’ipotesi annunciata a maggio 2020». Il professore Michele Marchi, docente di Storia contemporanea al campus di Ravenna dell’Università di Bologna, invita alla cautela nell’analisi di quella che alcuni media hanno, sinteticamente, già ribattezzato “corsa alle armi”. Ma, al momento, individua un elemento di interesse: «Si è rotto un tabù e si sta parlando della necessità di una difesa europea».

Professore, allora è utile che l’Ue affronti la questione della difesa comune?

«È il salto di qualità di cui parlava De Gasperi più di 70 anni fa quando diceva che se si fosse fatta la difesa europea si sarebbe fatta l’Europa politica. Un passo verso la difesa unitaria dell’Ue è un passo verso una maggiore sovranazionalità».

Però non è un tema di facile trattazione…

«L’Europa è un contesto che ha espulso la guerra dalla sua quotidianità da tempo. Parlare di difesa e di armi e di guerra è complicato da far capire alle opinioni pubbliche e in questa situazione ci si chiede dove siano i leader che fanno pedagogia politica, mentre è facile individuare dove siano i leader che si limitano a rilanciare le paure della gente».

Le cifre di cui si parla spaventano l’opinione pubblica che teme lo spostamento di risorse.

«Von der Leyen ha parlato di 800 miliardi di euro, ma se guardiamo al dettaglio ci sono solo 150 miliardi come fondi e prestiti, il resto dovrebbe essere l’impegno dei singoli Paesi che potrebbero incentivare la produzione militare con annessi e connessi contando su sgravi  scali e la sospensione del Patto stabilità».

Da dove potrebbero arrivare le risorse economiche per sostenere il piano Rearm?

«La Germania ha assunto posizioni rivoluzionarie sul tema: il governo di grande coalizione in arrivo, ancora prima di nascere ufficialmente, ha tolto il vincolo al debito utilizzando il Parlamento uscente che grazie al voto dei cristianodemocratici, dei socialisti e dei verdi ha raggiunto i due terzi necessari. Questo signi ca aprire all’ipotesi di fare debito comune a livello europeo. È la strada che potrebbe portare verso gli Eurobond».

Sulla scena ora si affaccia la cosiddetta “Lega dei volenterosi”, uscita da un incontro di inizio marzo fra diversi Stati europei. Come va considerata?

«Non è un caso che a muoversi in questa direzione siano soprattutto Regno Unito e Francia, i due Paesi europei che siedono nel consiglio di sicurezza permanente dell’Onu, che hanno la deterrenza nucleare e insieme ad Usa e Turchia costituiscono i quattro eserciti principali della Nato».

Che ruolo riveste la Nato in questo scenario?

«Il Patto atlantico resta un’organizzazione composta da 32 Paesi e dovrà essere per forza un soggetto con cui dialogare per qualsiasi piano di riarmo o coordinamento sovranazionale della forza militare. Non dimentichiamo che, seppure con qualche velata minaccia, Trump non ha ancora affermato che avrebbe chiuso la Nato».

C’è comunque voluto Trump per spostare la questione della difesa comunitaria in cima all’agenda politica…

«L’irruzione di Trump nello studio ovale è senza dubbio la novità centrale nello scenario europeo che si è andato a creare dall’invasione russa in Ucraina tre anni fa. È dagli anni ’70 che gli Usa chiedono all’Europa maggiore impegno economico nelle politiche militari, ma ora con Trump questo approccio subisce uno scatto in avanti».

A cosa punta il presidente americano?

«Trump ha individuato nella Cina il grande nemico degli Usa e quando vuoi isolare un nemico cerchi di sfilargli gli amici o presunti tali. In questo momento l’amico più vicino a Pechino sembra Putin, per quanto noi sappiamo bene che si tratti di un’amicizia in parte retorica e molto dialettica, visto che i due Stati condividono un confine lunghissimo che non è sempre tranquillo e in altre aree del pianeta, per esempio in Africa, sono competitor. Per supportare l’Ucraina, l’Europa si è liberata dalle dipendenze energetiche verso la Russia che ha trovato un mercato di sbocco nella Cina. Trump punta a indebolire questo legame».

Il fronte ucraino ha mostrato il peso di Elon Musk: la resistenza di Zelensky è aggrappata all’esistenza di Starlink per le connessioni internet. La Storia ha precedenti di soggetti privati così determinanti in vicende internazionali?

«La privatizzazione di certi ambiti strategici è un unicum ed è impressionante quanto tutto ciò sia rischioso. Ancora una volta emerge la necessità della diversi cazione come si è visto nel fabbisogno energetico: se dipendi da un unico fornitore, sei sotto scacco. Per questo si dovrebbe arrivare a un consorzio europeo per fare in modo che non sia un privato, Musk o qualcun altro, a fornire servizi indispensabili come quello dei satelliti e della comunicazione strategica».

Le sanzioni economiche contro la Russia hanno dato risultati?

«Si vedranno in maniera più incisiva se la guerra dovesse fermarsi perché dopo le difficoltà iniziali, la Russia si è trasformata in una economia di guerra. Se si ferma il conflitto dovrà ricalibrare il proprio sistema che oggi è tutto spinto sulla produzione bellica. A quel punto il disimpegno e le sanzioni dell’Ue sul medio periodo potrebbero essere devastanti».

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