Al Mar, il tema del conflitto attraversato da grandi opere, non sempre ricomponibili

A Ravenna la mostra “?War is over” fino al 13 gennaio a cura di Angela Tecce e Maurizio Tarantino. Ricercato il senso di stordimento per lo spettatore

19. Pablo Picasso

Picasso, Jeux des pages, 1951

La mostra “?war is over” – curata in collaborazione da Angela Tecce, dirigente MIBact, e Maurizio Tarantino, direttore della Classense e del Mar – ha inaugurato la nuova stagione delle grandi mostre di Ravenna: nonostante il titolo risuoni quello dell’esposizione dedicata due anni fa alla fine della II guerra mondiale presso il Museo di Roma, la mostra ravennate trasforma il punto esclamativo di questa in un interrogativo, aprendo semanticamente la parola conflitto a numerose interpretazioni.

L’esposizione al Mar prende infatti come spunto storico il centenario della conclusione del primo conflitto mondiale allargandosi a comprendere la matrice dei conflitti fra gli esseri umani. Volontà dei due curatori è stata infatti la realizzazione di una campionatura di opere di grandi autori sui tre temi derivati come il rapporto fra arte e conflitti, il mito e la contemporaneità, includendo i riflessi degli eventi storici sulle poetiche degli artisti e la loro posizione nei confronti della guerra, gli esiti e le mitologie costruite sui conflitti dall’antichità ai giorni nostri, la lotta fra popoli diversi negli scenari contemporanei dell’immigrazione. Un respiro di tale ampiezza non è il primo nel panorama italiano: ricordiamo due grandi mostre realizzate da Massimiliano Gioni a Milano sulla figura della madre (2015) e la seconda sulla terra inquieta (2017) che esplorava unicamente i conflitti causati dai grandi flussi migratori degli ultimi decenni, tema toccato anche da alcune opere al Mar. Pur nella loro ampiezza, le due mostre di Gioni hanno mantenuto una forte sottotraccia storica, scandita fra temi e decenni nella mostra sul materno, o lo strettissimo legame alla contemporaneità e alle aree geografiche.

La mancanza di una unità spazio/tempo non ha spaventato i curatori di Ravenna che all’inaugurazione hanno ribadito come il tema scelto costituisse un nucleo sfuggente, irriducibile a una semplice opposizione alla pace. Le frasi celebri e i documenti storici in mostra – fra cui alcuni libri e tavole parolibere futuristi – si predispongono quindi come un semplice contrappunto storico-letterario, parallelo ma non autonomo alle opere esposte che, pur appartenendo a tempi e spazi del tutto lontani, svolgono una funzione di rimando alle declinazioni più svariate del conflitto. È quindi ricercato il senso di stordimento che lo spettatore può provare nelle varie sale, passando da un cratere classico greco raffigurante alcuni episodi della guerra di Troia al lavoro ironico della Bomba a mano – realizzata da Pino Pascali assieme ad altri giocattoli-armi in versione Pop alla metà degli anni ’60 – o avvicinando mentalmente l’Alabardiere firmato da Rubens (1605), un bassorilievo romano di un combattente romano dei primi secoli imperiali, i Gladiatori (1955) ed Ettore ed Andromaca (1924) di De Chirico o i bambini soldato liberiani realizzati da Davide Cantoni nel 2007.

Gandg

Gilbert & George, Machete, 2011

Si tratta di combattenti diversi per spazio/tempo, di narrazioni storiche che vanno dall’estremo passato alla più triste, realissima contemporaneità, di narrazioni mitologiche, come nel caso di De Chirico, che appropriandosi della guerra esplorano in realtà il rapporto fra modernità e antico. I lavori in mostra sono selezionati in base alla qualità e a nomi di grande rispetto (Abramovic, Burri, Guttuso, Kiefer, Neshat, Picasso …) che attraversano il tema in modi differenti, diretti o indiretti, talvolta difficilmente ricomponibili: i due lavori in mostra del contemporaneo Jan Fabre, che utilizza ali di scarabeo per ricoprire una spada di acciaio e lo stemma delle ferrovie del Congo belga, rimandano al colonialismo del proprio paese, al concetto di metamorfosi e alla potenzialità del materiale impiegato mentre Machete del duo storico Gilbert & George appartiene a una serie come London Pictures, interamente basata sulle titolazioni delle locandine dei giornali inglesi in rapporto alle vite e alla brutalità del quotidiano della grande metropoli. La performer Ana Mendieta è presente grazie a un famoso video del ’74 in cui, lasciando tracce del proprio sangue su una superficie, intendeva sottolineare la qualità sacrificale del corpo e una visione radicale della soggettività femminile mentre lo stesso medium acquista un diverso significato nell’opera dell’azionista viennese Hermann Nitsch, storicamente interessato all’ambito rituale e misterico che fin dall’antico coinvolge corpi umani e animali. Il videoallestimento del Buddha davanti al monitor dell’artista coreano Nam Jume Paik, importante precursore dell’Arte digitale, ha molto a che fare col rapporto fra nuovi media e vita reale, fra soggetto e oggetto, meditazione/osservazione, mentre i quattro allestimenti di Studio Azzurro, un gruppo italiano che fin dagli esordi negli anni ’80 si è ritagliato un posto internazionale nella realizzazione di installazioni interattive, rimangono più fortemente aderenti alla traccia: se Trincea e Feditori a cavallo, allusivi rispettivamente al primo conflitto mondiale e all’esperienza della guerra in Dante, tradiscono una maggiore semplicità rispetto a tante loro opere, appaiono più riuscite la rivisitazione del monumento funebre del Guidarello, coinvolto nella guerra come tutti i nobili del suo tempo, e l’allestimento della Ballata della guerra, vera e potente chiosa poetica di Sanguineti all’inutilità dei conflitti e al tempo che tutto divora.

? war is over. Arte e conflitti tra mito e contemporaneità; Museo d’Arte della città di Ravenna, fino 13 gennaio 2019; orari: Ma-Sa 9-18; Da 10-18, chiusa il lunedì (intero 10 euro; riduzioni 8/6 euro)

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