“Attenzione”: un film sul rumore tra cacofonie visive e sonore. Parla il regista

Al festival Soundscreen anche Beware! The Dona Ferentes del filmaker Daniele Pezzi che racconta come è nato il progetto del documentario presentato all’ultima mostra di Pesaro

Daniele Pezzi

Daniele Pezzi

Beware, attenti! Il titolo è un rimando esplicito alle locandine cinematografiche horror degli anni ‘50/’60. Ma, come allora, più che un avvertimento di pericolo trattasi di puro invito alla vertigine, al brivido. Andiamo oltre i preconcetti e facciamoci trasportare: dal rumore, nei suoni stridenti e disturbanti, nella distorsione e nella manipolazione sonora di Dona Ferentes, performer tra i più innovativi della scena musicale underground italiana. Lo facciamo con Beware! The Dona Ferentes dell’artista e filmaker ravennate Daniele Pezzi.

Il documentario/ritratto – presentato all’ultima Mostra Internazionale del Cinema di Pesaro (dove nel 2004 Pezzi è stato premiato con Travelgum) ed in programma al SoundScreen Film Festival di Ravenna (il programma a questo link) – è una potente riflessione sul rumore, sia sonoro che visivo.

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Un fotogramma da Beware

Daniele hai affermato che Beware! è uno stacco netto rispetto al tuo lavoro precedente. Perché?
«Nel corso degli anni ho portato avanti una ricerca che è nata nel contesto del cinema d’artista, ovvero quelle creazioni audiovisive che nascono per essere esperite in luoghi e forme diverse da quelle della sala cinematografica tradizionale. Fin dall’inizio la mia attenzione si è concentrata sul rapporto psicologico che intercorre tra essere umano e l’ambiente naturale e antropico che lo circonda. I miei primi due mediometraggi (Roads Ending e Tiresias-un personaggio in tre corpi) sono i punti di arrivo (o di transizione) del tentativo di rappresentare la disgregazione dell’identità; nascono come esperimenti di collaborazione con gli attori, un approccio che limita il più possibile la finzione all’interno del film e lo rende simile ad uno strano documentario. In parallelo a questa linea di ricerca, sono nati una serie di brevi lavori video, che si confrontano con il mondo dei mass-media e del loro influsso sugli individui. Una riflessione sul modo in cui la morale e la politica vengono veicolati dalla televisione e oggi dalle reti sociali, sulla condizione di essere spettatore passivo di uno spettacolo popolare a cui si sente di doversi adeguare. In questi esperimenti utilizzo quasi esclusivamente materiale audio-visivo già esistente manipolato attraverso un montaggio e una post-produzione di stampo analogico, con un approccio vicino alla pratica musicale del re-mix. Beware! The Dona Ferentes, che è assemblato partendo da materiale registrato inconsapevolmente, è il risultato più compiuto di questo percorso di ricerca».
Il film ha avuto una gestazione molto lunga, hai seguito Michele Mazzani (alias Dona Ferentes) dal 2008 al 2018. Come è nato il progetto?
«Ho conosciuto Michele attraverso amici comuni e nel 2008 abbiamo iniziato a frequentarci. Siamo buoni amici da allora e ho avuto modo di assistere a numerose sue performance e concerti. Insieme abbiamo anche portato avanti una serie di esperimenti editoriali, la Cavelonte Edizioni. Per quanto riguarda il film, la maggior parte delle situazioni che si vedono sono state riprese in modo inconsapevole, nel senso che in quei momenti ero più interessato a sperimentare con gli strumenti (cellulari, telecamere, fotocamere, ecc.) che avevo a disposizione, piuttosto che a documentare quello che avveniva davanti all’obiettivo. Alcune di queste riprese però hanno iniziato a riemergere nel corso degli anni. Mi sono ritrovato a riguardarle periodicamente e mi sono reso conto del loro potenziale intrinseco. Ho capito che c’è ancora spazio e necessità per forme di cinema più radicali, per quel tipo di sperimentazioni che da sempre sono portatori di innovazione anche per l’industria cinematografica di massa».
Un film-riflessione sul rumore. Dona Farentes studia, produce il rumore. Tu come ti sei posto di fronte al rumore “visivo”?
«Il materiale fotografico e audio-visivo digitale che l’umanità produce continuamente con smartphone e tablet, a mio parere, si può considerare rumore di fondo. Un flusso visivo che si moltiplica continuamente, scorrendo sui social network, saturando le memorie dei computer e oggi delle nuvole virtuali che contengono i dati e i ricordi di milioni di persone. Allo stesso modo le riprese di Dona Ferentes sono testimoni dello sviluppo di questa tendenza. Come il rumore di DF diventa sempre più raffinato e sempre meno fastidioso, così l’immagine seguendo cronologicamente l’innovazione degli strumenti di registrazione, perde gradualmente la grana dei pixel fino a tendere all’omogeneità della pellicola. Inoltre i materiali di diversi formati, che ho utilizzato conservandone le dimensioni originali, si sovrappongono reciprocamente andando a nascondere porzioni dello schermo per costruire in alcuni momenti una cacofonia visiva che unisce eventi diversi in un unicum temporale, e allo stesso tempo segue il metodo compositivo, per frammenti sonori, utilizzato da Dona».
A Pesaro come hanno reagito gli spettatori? Cerchi in qualche modo di ottenere una reazione precisa nel pubblico? Credo che non si possa parlare di Dona Farentes senza evocare il concetto di provacazione…
«Ho lavorato per oltre un mese con il fonico e musicista Andrea Lepri per creare una colonna sonora che non fosse mai gratuitamente fastidiosa. Il mio obiettivo era anche quello di dimostrare, come dice Dona Ferentes, che il rumore è comunque un suono; e questo è dichiaratamente un film sul rumore. Ero molto nervoso a Pesaro pensando a come avrebbe reagito il pubblico. Devo ammettere che il risultato ha superato le aspettative. Ai commenti lusinghieri dei critici – a cui sono seguite ottime recensioni – si è affiancata la reazione di un pubblico che è rimasto in sala fino alla fine e che mi ha incontrato dopo per pormi domande e dare suggerimenti. Penso che il pubblico abbia apprezzato una visione fuori dagli schemi tradizionali, che però risulta coerente e non faticosa. Per quanto riguarda la provocazione, non c’è dubbio che – come dice lui stesso – all’inizio le performance di DF nascevano con spirito provocatorio e con il deliberato intento di “rovinare la festa” agli astanti. Questa attitudine essenziale nella sottocultura noise e underground si è però trasformata nel tempo e sostituita con il piacere nell’assemblaggio dei suoni e più recentemente nella creazione di ambienti sonori ottenuti con strumenti non convenzionali. In questo senso il documentario supera gradualmente la cacofonia per arrivare ad una dimensione più legata alla natura e agli aspetti più intimisti e umani del personaggio e dei suoi suoni».

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