Pupi Avati: «Vengo dalla cultura contadina, un atto poetico nasce dalla semplicità»

Il regista bolognese ospite alla Settimana del Buon Vivere di Forlì il 23 settembre: «Oggi si è negato il diritto di cittadinanza al buon senso»

Pupi Avati 1

Pupi Avati

Il regista bolognese Pupi Avati inaugurerà la nona edizione della Settimana del Buon Vivere di Forlì il prossimo 23 settembre. Nella chiesa di San Giacomo Avati terrà un monologo intitolato “Tutti i luoghi del mio buon vivere”. L’ho raggiunto al telefono, in una mattina di lavoro sul set del suo prossimo film ambientato nelle valli di Comacchio, per chiedergli qualche anticipazione.

Il suo incontro s’intitolerà “Tutti i luoghi del mio buon vivere”. Ma cosa significa per lei “vivere bene”?

«Significa per me quello che significa per tutti. I miei gusti non si distanziano troppo da quelli comuni. È evidente che ci sono certi luoghi e soprattutto certi contesti umani migliori di altri. Parte tutto dall’essere umano».

Cosa intende per contesto umano?

«Vengo dalla cultura contadina. I primi cinque anni della mia vita li ho passati in campagna per motivi bellici: ero stato sfollato con la mia famiglia per i bombardamenti a Bologna. È stata un’iniziazione. Ho incontrato il mondo attraverso questa cultura, ho subìto quell’imprinting che dava un valore prioritario alla qualità delle cose e delle persone. Era sufficiente definire qualcuno una “brava persona”, per far sì che avesse una sorta di lasciapassare, per cui entrava in casa e veniva accolto come un famigliare».

Come ha influito la cultura contadina sul suo lavoro?

«Era un mondo in cui si fantasticava di ogni cosa. Se ho fatto tanti film e ho raccontato tante storie è stato anche per questo. Si raccontavano tante favole contadine, che spalancavano il mondo su dei baratri di paura e di orrore dai quali ho attinto abbondantemente. Allora c’era un tipo di religiosità preconciliare, un sentimento del sacro semplice ed essenziale, pieno di quel mistero di cui le religioni dovrebbero essere intrise. Era un mondo primario: il buon vivere dipende anche da questo, è in stretta connessione con gli aspetti originari delle cose».

Una lettura quasi pasoliniana, la sua.

«Non esiste un copyright pasoliniano. Tutto il mondo classico è intriso di questo sentimento. Basta leggere Orazio per capire questo modo di pensare. Il buon vivere è nato prima di Pasolini. Non ho niente contro Pier Paolo, col quale ho anche scritto un film. Ma penso che sia nato molto prima».

Però anche lei crede che la qualità della vita oggi sia peggiorata rispetto alla sua infanzia.

«Si è negato il diritto di cittadinanza al buon senso, che significa anche negare la semplicità delle cose. Oggi ormai leggiamo solo fra le righe. Con questo eccesso di intelligenza leggiamo il mondo in modo molto più artificioso, quando in realtà dovrebbe essere percepito e vissuto. Non si tratta di un discorso reazionario, di instaurazione del passato o del lamento per un’arcadia perduta: è la constatazione che qualsiasi atto poetico inizia dalla semplicità».

La vera poesia è sempre contemporanea, per lei?

«Perché la poesia di Archiloco, poeta vissuto tremila anni fa, ci commuove ancora oggi e ci sembra equidistante da quella di Montale, nostro contemporaneo? Perché il buon senso è intriso di bellezza. E la bellezza richiede un atteggiamento diretto, semplice, primario. La bellezza comunica se stessa senza bisogno di troppi artifici».

Perché ci siamo allontanati da questa semplicità?

«La nostra società non è più quella del fare. Quando ero bambino i maestri chiedevano agli alunni: “cosa fa tuo padre?”. Adesso chiedono: “di che cosa si occupa?”. Ovvero, di che s’impiccia? Questa è un po’ una sintesi di ciò penso. Ci siamo sbarazzati della fatica fisica. Ricordo mio nonno che tornava dall’Arsenale con la sua tuta da operaio unta e impolverata. Si mangiava due scodelle di maccheroni e una mela; lo faceva con un gusto e un piacere che significavano già smaltire la fatica. Mio nonno sicuramente non ha mai avuto problemi esistenziali, non si è mai posto problemi diversi da quelli di fornire alla famiglia ciò di cui aveva bisogno e dare a se stesso i piaceri basilari. Era un gran donnaiolo, si è portato a letto tutte le donne del quartiere, fra magliaie e domestiche… Non è stato esattamente uno stinco di santo. Ecco, credo che abbiamo perduto queste cose essenziali della vita a favore delle secondarie, che non sempre ci soddisfano. Ci portiamo sempre dentro un senso di incompiutezza. Un rumore di fondo che ci accompagna, che è l’infelicità».

 Come ha influito il successo sulla qualità della sua vita?

«La premessa è che il successo non l’ho mai raggiunto. L’ho rasentato, ne ho avvertito il riverbero. Dentro di me è rimasto un senso d’incompiuto e di non realizzato, un senso di colpa per non aver prodotto quello che il mio talento avrebbe dovuto, almeno potenzialmente, produrre. Io so di non aver fatto il film della mia vita. Questo peccato che mi porto appresso è il carburante che fa sì che continui a fare questo mestiere».

Lei si definisce provinciale, ma il successo è arrivato a Roma, con la frequentazione del salotto di casa Betti. Eppure si volle “emarginare” per non perdere la sua identità. La solitudine è necessaria al buon vivere?

«No, non credo. È necessario invece trovare la propria identità. Ovvero, trovare lo strumento attraverso il quale dire agli altri chi sei. Questo è indispensabile al buon vivere. Il progetto di ogni vicenda umana ha per fine e per scopo il dire chi siamo. Ciò avviene attraverso la ricerca del proprio talento, della propria vocazione. È un po’ come la ricerca del Graal, ha qualcosa di sacrale. Racconto sempre di come sia stato difficile riuscire a capire quale fosse il mio talento, che purtroppo non coincideva con la mia passione».

La musica jazz?

«Sì, ho fatto di tutto per essere un grande jazzista, ma non avevo il talento sufficiente per diventarlo. Fu nella comparazione con altri musicisti – celeberrimo il mio incontro con Lucio Dalla – che ebbi la verifica che senza un talento, senza aver individuato il mio Graal, non sarei riuscito a dire agli altri chi ero. Poi col tempo, faticosamente e scompostamente, sono riuscito a trovare il mio tono di voce e la mia calligrafia. Quante persone lei incontra che hanno una passione sfrenata per qualcosa, ma sono prive di talento. E vede che fanno una gran fatica. Quando insegno recitazione mi accorgo che c’è un’infinità di ragazzi che hanno una grande passione ma che non sono nati per fare gli attori».

Oggi si ha paura di invecchiare, si pensa che invecchiando la qualità della vita si abbassi inesorabilmente. Secondo lei è così?

«È evidente che l’aspetto fisico peggiora. Il tuo fisico non ti accompagna. A un certo punto diventa recalcitrante. Rinuncia ad essere coincidente col tuo io. Una volta il pallone era là, e io ero dov’era il pallone. Adesso sono là solo con la mia mente. Questa distanza a cui mi sottopone il mio fisico la debbo compensare attraverso un atto intellettuale, possibile solo se continui ad avere nei riguardi del mondo un senso di curiosità estrema. Invecchiare significa aumentare la consapevolezza di quello che non sai».

Perché?

«Più invecchi e più scopri di sapere meno. Più passa il tempo, più ti rendi conto che le cose che non hai visto, non hai letto o non hai fatto sono sempre di più. Sono infinite. È un angolo che si allarga in modo esponenziale. Io vivo la mia quinta, sesta o settima età (non so quale sia) con un senso di ingordigia nei riguardi delle cose e delle persone che non ho conosciuto, dei libri non letti, della musica non ascoltata, dei luoghi mai visitati. La mia vita è molto più piena oggi di curiosità, di voglie, di desideri, di aspettative di quanto non lo sia stata quand’ero ragazzo, quando mi bastava la giornata. Allora mi era sufficiente il presente; oggi centellino ogni minuto. Mi chiedo ogni sera a cosa mi è servito il giorno, cosa ho fatto di più rispetto a ieri. C’è una sorta di rendicontazione, ed è così che si deve vivere la vecchiaia: con il desiderio di farsi trovare, nel momento in cui tutte le luci si spegneranno, più preparato di quanto tu non lo sia oggi».

A più di 40 anni da La casa dalle finestre che ridono è tornato a filmare nelle zone di Comacchio, un territorio che da sempre la affascina. Su cosa sta lavorando?

«La vita ha una strana circolarità. Invecchiare vuol dire anche regredire. C’è un film di Bergman, Il posto delle fragole, che metaforizza questo percorso. Da qualche anno ho provato la seduzione di tornare a divertirmi. Di tornare a spaventare con le favole delle mie terre e dei miei luoghi. Finalmente, dopo aver scritto questo romanzo che s’intitola Il signor Diavolo, sono riuscito a realizzare questo sogno adattandolo in un film. Non si tratta di chiudere un cerchio, ma piuttosto di tornare a quell’idea di cinema inteso come racconto favolistico e orrorifico che mi sedusse agli inizi della mia carriera».

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