Quell’italiano volgare di Paolo Nori

L’autore presenta il reading “La Svizzera”: «Se non avessi letto Baldini non l’avrei scritto»

Foto Di Alfredo Anceschi

Paolo Nori

Narrare è raccontare una storia, con la scrittura o con il racconto orale. “Mosto” (il succo delle storie) è una rassegna che incrocia le arti e i mestieri della narrazione ai Poderi dal Nespoli, a Cusercoli di Civitella di Romagna, curata da Matteo Caccia e Rosario Tedesco. Tra gli ospiti principali ci sarà Paolo Nori che venerdì 7 luglio alle 22 farà un reading del suo testo “La Svizzera”. Abbiamo parlato con lui di scrittura e narrazione.

Lei è di fatto uno dei pochissimi autori italiani che può essere definito “sperimentale”, come mai c’è così poco coraggio nella narrativa italiana nel voler trovare forme alternative, svincolate dalla trama, e poca voglia di cercare un diverso uso del linguaggio?
«Non credo che sia così, mi sembra che ci siano tante scritture vitali, mi vengono in mente Alessandro Bergonzoni, Tiziano Scarpa, Daniele Benati e Antonio Pennacchi, per fare quattro esempio lontanissimi tra di loro; a me sembra che ciascuno di loro, quando scrive un libro, non usi strutture preesistenti, ma che lavori su un disegno nuovo, fatto a mano, per ciascun libro nuovo che fanno: queste cose poi possono piacere o meno, l’aspetto sperimentale non necessariamente sinonimo di qualità, mi viene in mente un libro che direi sperimentale, Boccalone di Palandri, che non sono mai riuscito a leggere fino alla fine».

Il suo monologo La Svizzera si sentono richiami a due grandi riferimenti da una parte il poeta romagnolo Raffaello Baldini e dall’altra un’altra sua grande passione, le avanguardie russe. Cosa c’è da riscoprire in questi due modi di scrivere?
«Baldini è uno scrittore straordinario che unisce una grande potenza di scrittura a una grande tenerezza d’animo e un piccolo, grande mondo da rappresentare, Santarcangelo di Romagna, credo che questo monologo, La Svizzera, non l’avrei mai scritto se non avessi letto Baldini. Un legame con l’avanguardia russa faccio più fatica a trovarlo però quel periodo lì, l’inizio del secolo scorso in Russia, è il periodo che forse conosco meglio di tutta la letteratura mondiale perché ci ho scritto sopra la tesi, e forse lo porto con me qualsiasi cosa scriva».
Con questo monologo partecipa a un festival della narrazione, cos’è per lei narrare una storia oralmente? In cosa è diversa dal fare teatro o dallo scrivere?
«Io, come dicevo, ho studiato russo, e una delle cose che mi ha sorpreso, della letteratura russa, è quanto sia vicina la lingua scritta alla lingua parlata; quando ho cominciato a scrivere (in italiano) ho provato a lavorare su questa vicinanza anche in italiano: una conseguenza di questo fatto è che mi piace leggere i miei libri ad alta voce, dopo che sono usciti».
Il protagonista del libro è un ottantenne che si chiama Benito, una persona poco alfabetizzata. Da tempo ha una passione per la letteratura “non alfabetizzata”, come racconta in diversi suoi saggi, cosa ha di affascinante il modo di parlare di chi non sa parlare o il modo di scrivere di chi non sa scrivere?
«Nel De vulgari eloquentia Dante distingue due lingue possibili, la lingua volgare, quella che, senza bisogno di alcuna regola, si impara dalla nutrice e la lingua «che fu chiamata dai Romani “gramatica”»,  lingua posseduta anche dai Greci e da altri popoli. Dante scrive che «La più nobile di queste due lingue è il volgare, sia perché è stata la prima a essere usata dal genere umano, sia perché ci è naturale, mentre l’altra è piuttosto artificiale», dice Dante. Un mio amico, Giuseppe Faso, mi ha raccontato che quel più nobile latino di Dante (nobilior, nell’originale, De vulgari eloquentia è scritto in latino), per secoli, nelle edizioni a stampa, è diventato «più mobile» (mobilior), perché i curatori delle opere di Dante non potevano concepire che l’italiano volgare fosse migliore della lingua dei grammatici. Ecco, a me piacciono le cose scritte in italiano volgare e io stesso mi sforzo di scrivere in italiano volgare».
In molti suoi testi gioca con le ripetizioni, che sono una di quelle forme che a scuola le maestre con la penna rossa segnano come errore. Alcuni anni fa segnalò anche una traduzione in italiano di un romanzo americano in cui erano state tolte le ripetizioni del testo originale, secondo lei facendo un grave torto all’autore. Perché abbiamo così paura delle ripetizioni?
«La ripetizione è una figura retorica, avere paura delle ripetizioni sarebbe come avere paura delle assonanze, o delle consonanze, o delle metonimie o della antonomasie o degli eufemismi, non mi sembra abbabbia tanto senso, ma forse mi sbaglio io».

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