Riccardo Sinigallia e le sue canzoni: «Mi affeziono anche alle loro fragilità»

Il cantautore e produttore romano in concerto a Savignano: «Con i Tiromancino il successo, ma oggi i miei concerti sono come un rito collettivo…»

Produttore, cantautore, autore (per altri, oltre che per il cinema), Riccardo Sinigallia è protagonista da trent’anni della scena romana e senza dubbio tra le figure chiave dell’intero panorama musicale italiano, quella che una volta si sarebbe detto indipendente. Nell’ambito del tour estivo di presentazione del suo ultimo album, Ciao Cuore, sarà in concerto l’8 giugno in piazza a Savignano sul Rubicone per la rassegna “Il rock è tratto” (ingresso gratuito). Lo abbiamo contattato all’indomani della sua partecipazione al MiAmi festival di Milano. E la nostra chiacchierata parte proprio da qui.

Riccardo Sinigallia

Riccardo Sinigallia

Il MiAmi offre sempre uno spaccato della scena musicale italiana e quest’anno è stato la dimostrazione plastica di come sembra siano cadute le barriere tra rock, pop, rap e trap, tanto che tra gli headliner c’era anche Sferaebbasta. Che aria si respirava?
«Era prevedibile questa apertura, i tipi del MiAmi sono molto bravi e attenti a quello che sta accadendo. C’era grande entusiasmo, molto fermento, e sono felice di poter partecipare a iniziative di questo tipo. Non ho visto però cadere barriere, semplicemente continuano a esserci, come sempre in Italia, fenomeni commerciali abbastanza specializzati a cavalcare tendenze extra-musicali…».
Ma ti piace il nuovo indie italiano? Lo segui?
«Non sono fan di molti artisti indie, ma li seguo con interesse e curiosità. È un bene che ci sia stato un grande cambiamento in questi anni. Rispetto al passato la vera differenza sta nei numeri dal vivo, ora davvero impressionanti, e nella questione produttiva: oggi un artista può pubblicare con un gruppo di amici e piccole etichette appassionate in modo veloce, non essendoci più bisogno di strutture mastodontiche e lente a orchestrare il tutto…».
Dal punto di vista proprio della produzione, il tuo ultimo disco invece spicca per un’attenzione maniacale per i suoni: si sentono i fruscii, i rumori delle corde, non una cosa così abituale ascoltando un disco italiano…
«Si tratta in effetti di una caratteristica a cui ho sempre prestato attenzione, mi piace conservare i momenti di purezza, mi piace sentire anche delle parti “sbagliate”, non aggiustare troppo le cose: quando produco i pezzi mi affeziono anche alle loro fragilità».
Come nascono le tue canzoni?
«In modi molto diversi, sul divano con una chitarra in braccio in pochi minuti o in intere giornate in studio su sperimentazioni elettroniche. Porto avanti tante bozze che poi magari restano tali: la cosa principale che fa sopravvivere una canzone rispetto a un’altra, nel mio caso, è la magia che si crea tra musica e testo».
Su questo ultimo album mi pare tu abbia sperimentato molto anche con la voce…
«In effetti avevo un po’ mollato questo aspetto, cercando di puntare invece su una voce meno artefatta possibile. Poi anche grazie ai consigli dei miei collaboratori, di Caterina Caselli in primis (patron della Sugar Music per cui è uscito il disco, ndr) ho ricominciato a cantare, senza più questo approccio diffidente verso la mia voce. Diciamo che ho cercato di portare avanti una ricerca “canterina”».
Cosa ne pensi della critica musicale?
«Purtroppo oggi ha effetti minori rispetto a molti anni fa e questo mi dispiace. Ci sono ottimi critici, anche se sono pochi e lavorano difficilmente in testate istituzionali, anzi fanno fatica a emergere perché realmente indipendenti, ma quando scrivono è confortante e fanno la differenza. Spero che rinasca una fiducia nei confronti di questa nuova generazione, anche perché sono sempre stato un fan del critico indipendente; riviste come Rumore e Blow Up d’altronde mi hanno fatto scoprire dischi che poi mi hanno cambiato la vita».
Quali sono? Chi sono gli artisti che ti hanno formato?
«Da bambino i primi a farmi innamorare del rock sono stati gli AC/DC, quelli dei primi dischi con Bon Scott, che mi hanno portato verso l’heavy metal. Poi un passaggio fondamentale per la mia formazione è stato invece scoprire i Police, che mi hanno fatto apprezzare la raffinatezza in musica. E così ho continuato a seguire con interesse ogni passaggio epocale della storia della musica, dal punk alla musica elettronica. Ma il vero grande e definitivo cambiamento in me è stato scoprire la musica che potevo davvero comprendere, quella cantata nella mia lingua, scoprire la magia del testo insieme al suono, di cui parlavo prima. E così i grandi cantautori, Battisti sopra tutti, e poi il primo Battiato. Quello che mi ritrovo ad ascoltare più assiduamente ancora oggi è invece Paolo Conte».
Come riesci a ricoprire così agilmente diversi ruoli, dal produttore all’autore di colonne sonore?
«L’approccio è simile, ma la parte da produttore, da autore per il cinema o per altri, la intendo come quello che è, ossia un vero e proprio lavoro a pagamento. Le mie cose invece le proteggo, rappresentano un’esigenza di vita: riesco a separare bene i due aspetti dal punto di vista attitudinale».
Sei tra gli autori di due canzoni in particolare che in molti indicano nelle enciclopedie musicali tra le più importanti della storia della musica italiana, “Quelli che benpensano” di Frankie hi-nrg e “La descrizione di un attimo” con i Tiromancino. Che ricordi hai?
«Sono due casi molti diversi. Ricordo che mentre lavoravo a “Quelli che benpensano” avevo paura di stare rovinando la canzone di Francesco, sai all’epoca era un sacrilegio cantare in un pezzo rap (Sinigallia canta il ritornello, ndr). Poi subito dopo mi sono reso conto effettivamente di aver contribuito, insieme a Ice One, a realizzare qualcosa di speciale, un pezzo ancora attualissimo oggi. “La descrizione di un attimo” non so invece se è davvero la canzone più bella che ho scritto, è sicuramente ispirata, ma fondamentali sono state le contingenze, il successo ottenuto grazie al film di Ozpetek».

Hai mai sentito l’esigenza di suonare in una band, dopo aver lasciato i Tiromancino? Che ricordi hai di quel periodo?
«È stato tutto molto bello, ricordo la costruzione dell’album (“La descrizione di un attimo”, in cui Sinigallia ha di fatto cambiato la direzione musicale del gruppo, ndr) il successo repentino: siamo passati dal suonare davanti a 20-30 persone da un giorno all’altro, o quasi, al concerto di Torino, che ricorderò per sempre, dove ci chiedevamo chi suonasse dopo di noi, per capire cosa ci faceva quel fiume di gente e poi scoprire invece che era lì per noi, 10mila persone. Ma poi ci sono state anche sofferenze: arrivando da esterno il mio intervento, così fortunato, forse ha rovinato qualche equilibrio, ora sono contento di avere comunque un buon rapporto con Federico (Zampaglione, ndr), ma non sento l’esigenza di suonare in una band, voglio essere libero di esprimere tutto quello che voglio, senza dover tener conto delle vite degli altri e delle leggi che condizionano i gruppi».
Hai parlato del successo con i Tiromancino, ora che rapporto hai invece con il tuo pubblico?
«Diciamo che il mio è un pubblico molto molto selezionato, ma quei pochi mi amano come si ama un artista fondamentale, in modo molto maturo e consapevole, non perché “funziona”. Ricordo nei momenti in cui suonavo davanti a 20 persone che i fan più accaniti erano loro stessi delusi, mi chiedevano come fosse possibile. Adesso che per fortuna le cose sono migliorate, che raccolgo più soddisfazioni, continuano a essere lì con grande affetto. Diciamo che si è coronato il mio sogno, non posso chiedere di meglio quando vedo il pubblico veramente ascoltare ogni parola come se fosse scritta da loro, cantarle, come una specie di rito collettivo».

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