Il teatro non si esaurisce mai, è come la vita, basta partecipare e “stare insieme”

Testimonianza di Silvia Mei, animatrice di un laboratorio sul capire e vivere il teatro, assieme a giovani universitari, del festival “Polis” di Ravenna

Un ritratto di Sivia MeiDa quando sono diventata proprietaria di un piccolo appartamento, posso finalmente partecipare alle tanto esecrate riunioni condominiali. Nel 2001 era uscita una pellicola francese che coincideva con la fiction di un’intera riunione di condominio, Mille Millièmes, fantaisie immobilière, e non c’era affatto da ridere, al contrario di quanto veniva annunciato in pubblicità! Qualsiasi spettatore-condomino ci si sarebbe riconosciuto, mentre chi avesse avuto la fortuna di vivere in una casa a sé avrebbe ringraziato il Cielo per ogni benedetto giorno trascorso nella villetta singola. In occasione della mia prima convocazione quindi, ero spiritualmente preparata a una lunga estenuante seduta che non avrebbe escluso alterchi e colpi di mano (in senso letterale). Dovetti ricredermi, ma soprattutto smentire una serie di pregiudizi e luoghi comuni. Sarò stata fortunata – oppure sono semplicemente masochista, non lo escludo – fatto sta che attraverso questi consessi annuali, salvo straordinarie, ho sperimentato i respiri della politica e le doglie della democrazia.

Confesso che mi sento elettivamente “sovietica”, nell’accezione meno deleteria e ideologica; ho letto come molti Charles Fourier e studiato i settlements (sorte di falansteri) americani. Pensare al mio condominio come a un bene comune e ai suoi abitanti come a una comunità più o meno provvisoria è un’attività spontanea che risponde in me a una vocazione civile. Questa specie di filantropia, che mi fa salutare chiunque salga le scale o suonare, anche inopinatamente, al campanello del nuovo arrivato, l’ho imparata dai napoletani, che non appena emigrano in una nuova città bussano ai vicini e si presentano invitandoli nella loro ancora dimessa dimora per ’o caffè. Devo invece alla famiglia eritrea che affaccia sul mio stesso pianerottolo, l’abitudine in estate di tenere tutto il giorno spalancato il portoncino d’ingresso. Mi aspetto forse che le piccole Seghen e Delina, stanche dei loro giochi in strada, mi raggiungano per un pomeriggio in cucina a preparare biscotti (che a Bologna con 40 gradi di massima non è proprio un’idea geniale). Probabilmente Katerina e Paolos, che hanno sangue africano, mi hanno insegnato a non aver paura.

Il quartiere in cui vivo è storicamente popolare, verace, trasformato però oggi nella sentina della città: multietnico e sì, popolare, ma per le numerose case assegnate a famiglie richiedenti, perlopiù “straniere”. Al mercato coperto che anima la strada parallela alla mia ci sono i neri da cui puoi comprare il fumo, ma li trovi un po’ a tutti i cantoni nel quadrilatero a ridosso del Centro Sociale occupato vicino al Comune nuovo. Quando nelle sere d’inverno parcheggiavo la mia carretta trovavo sempre lo stesso tizio maghrebino a fare il piantone. Dopo qualche tempo non l’ho più visto ma era rassicurante trovarlo nel solito punto, perché era diventato una sorta di angelo custode, e se lui c’era mi sentivo protetta lungo quel pezzo di strada con poca illuminazione. Nella macchia che divideva la Pensilina dai fabbricati di nuova costruzione – quelli la cui impresa è fallita o che comunque non verranno terminati a breve –si diceva abitasse la più varia umanità (di clandestini). Tutta lì nascosta! Quando uscivo la sera al circolino accanto, guardavo sempre oltre quella siepe e le macerie che facevano del sentiero praticato normalmente alla luce del sole un terzo paesaggio, ricettacolo di “incolti”. A restituire fascino a quello scorcio era ed è ancora oggi la fodera di graffiti, stencil e murales che proiettano me passante in uno scenario newyorkese. Io a New York non ci sono stata (non ancora, almeno) ma di film americani ne ho visti parecchi. Insomma, dondolarsi lungo via Fioravanti di sabato all’ora di pranzo, mi trasporta sempre in un altro spazio-tempo.

Mei SguardoInOpera StereogrammaAmo il mio quartiere anche se non posso dire di rappresentarlo o di averne memoria storica, non possiedo la nostalgia di chi vi è nato e cresciuto. Sono una straniera, come la maggior parte di chi lo abita, ma che contribuisce alla sua ricchezza più che al suo degrado. Che poi quando passo davanti alle scuole elementari i bambini cosiddetti italiani sono in minoranza e vedi facce e colori tra i più diversi. Ma non sono tutti bambini? In questi anni poi la congerie dei suoi abitanti è la più disparata, considerata la gentrification selvaggia che sta contribuendo a riqualificarlo (si dice così). Non lo so, ma se fosse un quartiere lindo e pinto, probabilmente non ci vivrei. Avrei paura.

Vi chiederete cosa c’entra tutto questo col teatro. C’entra. Il teatro accoglie, unisce, rende tutti uguali sopratutto quando il biglietto è unico e il posto è libero. Non c’è niente di più democratico. È uno spazio eterotopo che ti mette nella condizione di ascoltare e di pensare. Tra i tanti pregiudizi che ruotano intorno alla relazione teatrale vi è quello più tenace e incallito dello spettatore passivo. A teatro non c’è chi agisce e chi guarda, perché stare seduti richiede una postura tutt’altro che rilassata. La scena risucchia, e noi spettatori ci sporgiamo verso di lei, ingredienti (letteralmente: coloro che entrano), parte di un composto che necessita di corpi vivi che si guardano negli occhi. A teatro sediamo accanto a sconosciuti, rispettiamo il silenzio e non perché non abbiamo niente da dire ma perché ci educhiamo all’ascolto. O meglio: ci prepariamo al dibattito. Stare a teatro, andare a teatro è una palestra civile, un allenamento all’umanità. Non ci rendiamo conto della straordinaria possibilità che ci offre ogni volta da almeno 2.500 anni: STARE INSIEME. Le tecnologie sono per natura obsolete, i medium diventano meta e post, ma il teatro non muore mai. Perché ancora oggi, nel terzo millennio(!), esiste ancora chi investe a perdere in questa attività e chi lo sta a guardare?

Mei SguardoInOpera Hiroshi SugimotoSiamo diventati irrappresentabili, ai limiti del pensabile, ultimi resti di un’umanità disgregata che ha perso i fili della storia. Di teatro abbiamo profondamente bisogno se vogliamo ritrovare la nostra dimensione politica. Il teatro nasce, si fonda e si connota nell’agorà, nella piazza dove l’ecclesia di cittadini ateniesi si riuniva nel V secolo a.C. per i consigli. È nel teatro che gli umanisti hanno plasmato l’immagine dell’Europa moderna, è dal teatro quindi che dobbiamo ripartire per rifondare l’essere umano. Un noto tormentone morettiano recitava “no, il dibattito no”, e invece il dibattito sì, purché non si trasformi in bagarre, in shitstorm, in indignazione. Riusciremo forse a superare le incomprensioni depositate nel linguaggio, le divergenze, l’isolamento che genera paura e diffidenza.

Conduco laboratori per spettatori e studenti da almeno 10 anni e ogni volta che concludo un workshop devo prendermi almeno due, tre giorni di riposo. Non è tanto o solo la fatica fisica quanto l’investimento spirituale. Investimento in senso automobilistico. Rientro a casa tutta rotta, sento ogni parte del mio corpo, anche quelle che non credevo di avere. È una sensazione che in verità ricerco quando percepisco un progressivo intorpidimento della coscienza. È come ammalarsi, ti fa vedere le cose in modo diverso. E vedere il mondo da un’altra prospettiva mi sembra oggi un piccolo grande risultato. Direi anzi che è il nostro ultimo atto politico, il più radicale, insieme a quello dell’immaginazione.

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