«Il mio teatro, un luogo critico». Parla Stefano Massini

Tra gli autori più rappresentati in Italia, è consulente artistico del Piccolo di Milano

Stefano Massini

I suoi testi sono rappresentati in tutto il mondo. Dal 2015 ha sostituito Luca Ronconi, chiamato come consulente artistico da Sergio Escobar, direttore del Piccolo di Milano, il più importante teatro d’Italia.

Stefano Massini, classe 1975, è oggi tra i più rappresentati autori del teatro italiano. Tra gli spettacoli firmati da lui in questi mesi in Romagna c’è l’adattamento de Il nome della Rosa al Rossini di Lugo dal 12 al 15 dicembre.

Come è nata la sua passione per il teatro? C’è stato uno spettacolo o una persona che l’ha fatta innamorare questo mondo?
«È molto difficile rispondere. Per me il teatro è come respirare, se non c’è non c’è vita, ma come tutte le cose importanti la dai per scontata. Il teatro, da che ho memoria, ha sempre fatto parte del mio mondo e del mio modo di esprimermi. Il teatro per me non è una attività, ma un modo di comunicare, e io l’ho sempre avuto dentro me stesso. Ho ricordi di me piccolissimo e già avevo un grande fascino verso il palcoscenico».
Tra i suoi molti testi ce n’è uno a cui è più legato?
«La sensazione che ho sempre è che tutti i testi vanno scritti solo a condizione imprescindibile che tu abbia la necessità di raccontare quella cosa in quel momento. In ogni testo c’è una parte di me, per cui sono per me tutti uguali. In teoria si potrebbe dire che uno si sente più legato a quelli che hanno avuto più successo. Però i testi che hanno raggiunto degli obbiettivi hanno camminato di più con le loro gambe e quindi ti senti di dover accompagnare invece quelli che sono passati con meno successo…»
Solo in questo momento dei suoi testi sono in scena Occident express con una straordinaria Ottavia Piccolo, L’ora di ricevimento con Bentivoglio e la regia di Michele Placido, L’odore assordante del bianco, uno dei primi testi che scrisse nel 2005, portato in giro da Alessandro Preziosi, e soprattutto la grande opera Freud o l’interpretazione dei so­gni, portato in scena dal Piccolo Teatro a cui seguirà, a novembre, un libro pubblicato da Monda­dori oltre, naturalmente, a Il nome della rosa. Riesce a seguire, almeno a distanza, tutti questi allestimenti?
«No, non ci riesco e non lo farei nemmeno se riuscissi, perché non avrebbe senso. Non tutti gli spettacoli dove compare il mio nome sono la stessa cosa. Ci sono testi che sono interamente miei e ci sono altri che sono delle operazioni di adattamento di opere che esistevano prima di Stefano Massini. Per esempio con Il nome della rosa io ero molto vincolato dal romanzo, quello è Umberto Eco non Massini. Altre invece mi rappresentano pienamente perché sono frutto di una mia urgenza di scrittura. In questo momento quello che sto seguendo più da vicino è Freud o l’interpretazione dei sogni, che è l’ultimo testo che ho scritto.

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Una scena da “Il nome della Rosa” drammaturgia di Stefano Massini

Cosa l’ha spinta a fare uno spettacolo ispirato al saggio di Freud, che è un testo non narrativo e quindi molto complesso da tradurre sulla scena?
«Ogni epoca ha un paio di libri, non di più, che la riassumono completamente. Al punto tale da esserne una sorta di catalogo. Il Novecento è L’Interpretazione dei sogni di Freud. Noi siamo figli di quel libro. Ecco la necessità e la bellezza di dedicare una produzione di questa importanza a un’opera forse mai portata in scena. È una Bibbia della nostra contemporaneità. È il racconto dell’uomo che, lasciato solo, decide di fare chiarezza guardandosi dentro. Durante lo spettacolo, Freud analizza i sogni, racconta le visite con i suoi pazienti, racconta i propri stessi sogni. Ma il gioco di meccanismi, per cui tutto ciò che nel sogno appare camuffato è in realtà profondamente motivato da metafore, è di una poesia strepitosa».
Alla vicenda Lehman, ha dedicato un testo molto importante, Lehman Trilogy, divenuto poi anche un romanzo. Cosa la attraeva di quella vicenda? Come mai, secondo lei, è stato necessario un drammaturgo europeo per questa storia così americana?
«Gli americani si erano occupati del caso Lehman con alcuni film, ma concentradosi solo sul crac, mentre io mi sono occupato di questa lunga saga familiare, per capire come si era costruito questo colosso della finanza partendo dalla storia di una famiglia di immigrati ebrei tedeschi alla fine dell’800. Quello che mi interessava dei Lehman era capire come dal denaro e le merci che servivano a  finanziare una impresa si è arrivati a un meccanismo in cui invece il denaro serviva a finanziare altro denaro perdendo la concretezza e diventando finanza. La ragione principare dell’interesse di questa storia è che è una grande epopea di essere umani che declina una cosa che viene ritenuta disumana come la finanza e l’economia in qualcosa di molto umano».
I suoi due ultimi spettacoli sono diventati anche romanzi. Qual è la sua relazione con la narrativa?
«Il passaggio è stato molto breve. Dopo una fase iniziale di lavoro in teatro in cui cercavo di ricalcare la drammaturgia classica, negli ultimi dieci anni il mio modo di scrivere per il teatro è diventato molto libero. Non uso più nemmeno i nomi dei personaggi. Poi è il regista a scegliere cosa mettere in scena a cosa no. Questo fa sì che le cose che io scrivo sono sempre molto poco teatrali e vicine alla narrativa, perché sono molto lunghe. La prima versione che fu pubblicata di Lehman Trilogy che uscì nella collana teatro di Einaudi sorprese l’editore perché vendeva molto, cosa strana per un testo teatrale. Il motivo era che non la comprava solo chi aveva visto lo spettacolo, ma chi era interessato alla storia. Da lì nacque l’idea di pubblicare l’edizione estesa, lunga più del doppio, e pubblicarla in una collana di narrativa, facendo saltare lo steccato tra narrativa e drammaturgia. Si tratta semplicemente di storie».
Da sempre i suoi testi sono legati profondamente a temi sociali, come mai ha scelto questa direzione?
«È una cosa alla quale credo molto. Il teatro essendo uno dei pochi grandi riti laici rimasti all’umanità ha bisogno di ritrovarsi un luogo per la comunità. La definizione “teatro di impegno civile” è profondamente sbagliata, perché ne presuppone uno di non impegno, invece ogni forma di teatro ha un rilievo civile. Per­so­nalmente amo il teatro che non ha paura di recepire le paure e le urgenze della società, che vengono da fuori dal teatro e di trasportarle dentro al teatro trasformandolo in un luogo di domande, un luogo critico in cui recepire qualcosa della società che ci sta intorno diventando migliori nell’affrontarla».
Da due anni e mezzo è consulente artistico del più prestigioso teatro italiano. Come valuta questo primo periodo? Si aspettava  un lavoro così complesso?
«Io sono del parere che è sempre una cosa straordinaria poter portare un contributo a un teatro così prestigioso e importante. Per me il Piccolo ha rappresentato moltissimo, da sempre. Oggi, in nome di una finta e sbagliata forma di egualitarismo, si tende ad appiattire le eccellenze, invece occorre, per chiarezza del sistema, essere molto obbiettivi. Non sta tutto sullo stesso piano. Il Piccolo Teatro è il tempio del teatro di prosa italiano, è il primo teatro pubblico nato nel nostro paese e ha una storia ineguagliabile. Questo lo rende un fiore all’occhiello non solo di chi fa teatro, ma di qualunque cittadino italiano. Il Piccolo Teatro di Milano è sullo stesso piano degli Uffizi e dei grandi luoghi archelogici italiani, non è un elemento in più, ma è la ragion d’essere del nostro paese».
Che cosa le manca di più di Luca Ronconi?
«Difficile rispondere. Credo che chi come me ha avuto modo di lavorare con Ronconi, abbia una forma di rimpianto verso la sua intelligenza critica, il suo modo di ribaltare l’ovvio, di sottrarsi alla prevedibilità e di evitare le furbate. Ci sono molti modi di accattivarsi il pubblico e la critica con scorciatoie e forme di ammiccamento a cui lui si è sempre sottratto con una grande perspicacia, grazie alla sua raffinata lettura dei testi e quella che lui chiamava la “committenza politica” del teatro. Il suo teatro era per la polis, era la risposta a ciò che la società, l’umanità chiede a uno spettacolo in un determinato momento».
Come vede la drammaturgia contemporanea? Da che zona del mondo stanno arrivando le novità più interessanti?
«Ognuno ha il suo sguardo, personale e legittimo. Io sono sempre stato un cultore della drammaturgia anglosassone e sono molto attento a ciò che accade sui palcoscenici londinesi e americani. La drammaturgia sta vivendo un buon momento perché a differenza del cinema che è si è avvicinato fisicamente alle persone, è arrivato nelle nostre case prima e poi nei nostri smartphone, il teatro, per sua definizione, obbliga lo spettatore ad andare in un luogo e compiere l’ultimo rito laico della nostra società. Il teatro è un genere scomodo, disagevole, ma questa è la sua forza perché lo rende unico. È una forma espressiva antica e oggettivamente forte perché dotato di una sua autonomia indiscutibile».

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