Il ritorno dell’audio: «La narrazione per le orecchie può fare molto bene al teatro»

Il critico Rodolfo Sacchettini porta avanti da anni un percorso di riscoperta della forma del radiodramma

SacchettiniStiamo vivendo una nuova primavera dell’audio? La pandemia ci ha isolati, ci ha privato delle scene e dei cinema; ma ci ha fatto anche riscoprire la gioia dell’ascolto intimo, attraverso la fruizione di podcast e delle radio online. Il migliore esperto per parlare di questi temi è Rodolfo Sacchettini, fiorentino “naturalizzato” ravennate, critico teatrale e docente alla NABA di Milano, tra i fondatori della rivista Altre Velocità.

Sacchettini da anni porta avanti un originale percorso di riscoperta della forma del radiodramma: dallo scorso novembre collabora con Radio Tre, presentando radiodrammi d’archivio firmati da grandi autori ma spesso difficilmente reperibili; per il Teatro Metastasio di Prato sta curando un progetto di produzione di nuovi radiodrammi chiamato L’arte invisibile.

Si parla di ritorno dell’audio. Il fenomeno è partito prima della pandemia, ma senza dubbio il Covid lo ha fatto esplodere. È così?
«Si parla di un ritorno dell’audio da almeno dieci anni. Il fenomeno è esploso coi podcast d’autore, che hanno finalmente allargato il pubblico. Pensiamo al caso di Veleno di Pablo Trincia, un progetto di “narrazione per le orecchie” che risale al 2017; o a Matteo Caccia, col suo La piena, nel 2018. A me piace chiamarla una “primavera dell’audio”, un fiorire di idee e sperimentazioni diverse. Tutto è stato accelerato dalla pandemia: costretti a casa, il web ci ha permesso di fruire più facilmente di alcuni prodotti, fra cui quelli audio. E anche la produzione è aumentata. Grazie al digitale i costi si sono abbassati: è diventato molto più facile produrre un podcast, ed è relativamente poco costoso rispetto ad altri linguaggi. C’è stata dal basso una crescita rapida e diffusa e si stanno creando professionalità specifiche».

Una volta si pensava che i fruitori di podcast fossero tendenzialmente molto giovani: com’è cambiato il pubblico nel tempo?
«Secondo gli storici del podcast ci sono due fasi del fenomeno: una prima fase corre parallela alla diffusione del web, nei primi anni 2000. Il fenomeno rimase sotterraneo e nascosto, andava di pari passo con l’esplosione del blog. La narrazione audio, il più delle volte, era un diario sonoro: si raccontavano le proprie giornate, e così via. Poi c’è stato uno sviluppo, durato circa dieci anni, che ha prodotto veri autori. Anche oggi rimane fortissima la questione dell’io: un podcast spesso mette al centro l’io dell’autore che coincide col protagonista della storia che viene raccontata – un io che riscopre il mondo. Oggi il podcast coinvolge un pubblico molto più ampio, collegato a una fascia d’età relativamente giovane, ma si sta allargando. È diventato un mezzo per parlare degli argomenti più disparati».

Un podcast è capace di raggiungere la stessa complessità della letteratura o del teatro nel trattamento di un tema?
«Assolutamente sì, proprio come lo fa la radio di qualità. E da un punto di vista narrativo è la grande sfida da affrontare oggi per i creatori di podcast. La scrittura di podcast moderni è un campo in cui ci si può ancora divertire a sperimentare. Anzi, bisogna sperimentare: il podcast, come ogni narrazione legata al puro ascolto, deve porsi il problema, ancora più del teatro e della letteratura, dell’attenzione del pubblico. Deve inventarsi forme drammaturgiche che includano l’ascoltatore, che lo catturino. È un banco di prova interessantissimo per i drammaturghi. Va bene la necessità di esprimere il proprio io: bisogna vedere però se l’ascoltatore sente la necessità di ascoltarti!».

Esistono contenuti più adatti di altri alla fruizione in podcast?
«I contenuti che vanno per la maggiore, ma io direi in tutti gli ambiti ormai, sono l’inchiesta, il thriller, il giallo, l’indagine. Si parte dalla realtà e la si racconta come fosse un romanzo, alla ricerca di una verità che nessuno conosce. Penso al recente Polvere di Chiara Lalli e Cecilia Sala, che racconta il caso di Marta Russo, uccisa alla Sapienza di Roma nel 1997. Si vuole incidere sulla realtà, riaprire casi chiusi da tempo, riaccendere l’attenzione su un tema dimenticato. Ma questo non è il solo contenuto che funziona: ad esempio funzionano molto le micro-storie, legate a zone periferiche italiane che vengono riscoperte o a micro-fenomeni sociali. Un bel documentario radiofonico di Jonathan Zenti, uno dei migliori autori in circolazione, si chiama I Ritornanti, parla dei ragazzi italiani che vivono all’estero e che a Natale tornano nelle loro province».

Pensi che in questo momento di grande crisi produttiva possa essere interessante per i teatri incoraggiare e produrre questo tipo di linguaggio?
«Questa situazione di crisi non durerà poco e bisogna ragionare prevedendo. La forma dell’audio è un campo di ricerca straordinario. I teatri sono in crisi produttiva, ma per adesso ricevono risorse: l’invito è quello di investire denaro ed energie su questo genere. Il radiodramma è poco conosciuto, ma la sua storia è lunga quasi cento anni, va riscoperto e reinventato. I teatri dovrebbero impegnarsi in progetti a lungo termine: non basta tradurre uno spettacolo in radio, lo ascolteremmo in tre. Occorre impegnare drammaturghi, attori, saperi specifici. Occorre una produzione. Occorre educare il pubblico all’ascolto. Uno dei grandi problemi di oggi è la debolezza della drammaturgia: la radio ti allena a scegliere le parole giuste, a evitare di sbrodolare, a conquistare l’ascoltatore – è una scuola di scrittura. E anche per gli attori può essere una palestra importante, può aiutare a rinnovare modalità attoriali spesso un po’ artefatte. Credo che la narrazione per le orecchie possa fare molto bene al teatro».

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