«Uno spettacolo che è una cena condivisa sul malessere della nostra società»

Il Teatro delle Ariette in scena al Rasi insieme alle Albe, tra civiltà contadina e operaia: «Sul palco prepariamo i tortelli, poi li mangiamo con il pubblico, cercando di conoscerci»

Stefano Pasquini

Stefano Pasquini

Prosegue al teatro Rasi di Ravenna fino al 2 ottobre (info utili a questo link) la messa in scena dello spettacolo Pane e Petrolio, prima coproduzione che vede collaborare due compagnie storiche della regione, i padroni di casa delle Albe e gli emiliani del Teatro delle Ariette.

Ne abbiamo parlato con Stefano Pasquini delle Ariette, regista e autore del testo insieme alla collega Paola Berselli e a Luigi Dadina delle Albe, con cui è pure in scena (insieme anche a Maurizio Ferraresi).

Come è nata questa prima collaborazione tra le due compagnie?
«Da una grande amicizia e una lunga frequentazione, oltre che da una stima reciproca. L’occasione è stata semplicemente la proposta di co-produzione che ci è arrivata dal nuovo co-direttore di Ravenna Teatro, Alessandro Argnani. Proposta che abbiamo raccolto con grande felicità».

Il titolo cita esplicitamente Pier Paolo Pasolini: in che modo è omaggiato nello spettacolo?
«Petrolio come il romanzo di Pasolini, è vero, ma anche come quello degli operai. Pane, invece, per rappresentare i contadini. Gigio (Dadina, ndr) è figlio di operai, Paola (Berselli, ndr) è figlia di contadini. Lo spettacolo vuole essere una riflessione sulla frattura tra la civiltà contadina e quella dell’industria, consumistica, in un momento in cui al mondo pare non esserci più né pane né petrolio. Abbiamo volu- to parlare dell’oggi attraverso frammenti di Pasolini, il suo lucido sguardo, e soprattutto le nostre storie, famigliari, anche dei nostri genitori, quello che erano negli anni sessanta. Storie private vissute dalle persone senza nome, nei quartieri operai, nella campagne, per cercare di raccontare una storia più grande».

Adesso sembra comunque di assistere a un certo riavvicinamento al mondo dell’agricoltura da parte della società…
«Quello che è successo forse è che la frattura di cui parla Pasolini non l’abbiamo curata, è andata in cancrena, è stata rimossa dalla società e solo adesso forse ci rendiamo conto che una parte del nostro malessere è dovuto proprio al fatto che non ce ne eravamo accorti. Stiamo quindi ripensando il rapporto con l’agricoltura e con la natura e presto lo faremo anche con la manifattura, l’artigianato e l’industria, che continuano a essere presenti in questa società post-industriale, sempre più malata».

E qual è la malattia di cui soffre maggiormente?
«Il non rendersi conto. È molto difficile ma bisognerebe provare a rifare esperienza delle cose, per prenderne coscienza: dobbiamo ricordarci e ripensare che le uova non escono dagli scaffali, che le nostre macchine usano petrolio e acciaio, che quello che beviamo viene dal cielo, eccetera. Nella civiltà del benessere ce lo siamo dimenticati, ma dovremmo ritrovare il contatto con il nostro territorio. Oggi il tema centrale dovrebbe essere quello della sobrietà e della consapevolezza: se vogliamo affrontare il problema dell’energia, per esempio, dobbiamo prima di tutto immaginare un mondo dove se ne usi meno. Mi pare che sia un po’ quello che ci stanno cercando di dire Greta e tanti altri giovani».

Il teatro può aiutare a renderci più consapevoli? Qual è il vostro modo di intendere il teatro?
«Alla base di tutto, nel nostro teatro, c’è uno spazio condiviso. Siamo tutti, attori e spettatori, nella stessa stanza, illuminati dalla stessa luce, cercando di rispondere alle stesse domande. In particolare in questo caso gli spettatori sono a tavola e noi davanti a loro trasformiamo la farina in sfoglia, in tortelli, che poi a fine spettacolo condividiamo. Parliamo appunto di parità, di condivisione, di domande a cui cerchiamo risposte insieme agli spettatori, che sono un numero limitato, e che sentiamo perciò intimi».

E che vengono coinvolti attivamente?
«La nostra filosofia è quella dell’incontro, alla fine dello spettacolo ci conosciamo. Noi mettiamo in campo anche le nostre storie autobiografiche, non perché siano particolarmente originali, ma perché sono un po’ le storie di tutti. Facciamo la nostra parte come in un rito, che si conclude con il servizio dei tortelli e dopo restiamo a tavola a condividere con gli spettatori che possono farci qualsiasi domanda e togliersi le loro curiosità. Si parla e ci si conosce».

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