Qualcuno ha coperto l’infermiera mentre uccideva in reparto?

È la domanda che si fa la procura: l’inchiesta si allarga. L’Ausl pronta a collaborare. L’accusata: «Non sono un’assassina. Le foto? Errore»

«La vicenda si presenta sinistramente come la cronaca di una morte annunciata o meglio come la cronaca di una delle morti annunciate». È un passaggio dell’ordinanza del tribunale del Riesame che fa riferimento al decesso di Rosa Calderoni, la 78enne defunta lo scorso aprile nel reparto di medicina generale dell’ospedale di Lugo: la 42enne infermiera Daniela Poggiali (originaria di Faenza e residente a Giovecca) è accusata di averla uccisa con l’iniezione di una dose letale di cloruro di potassio e il tribunale ha respinto la sua richiesta di scarcerazione. Poggiali deve quindi restare in custodia cautelare in carcere a Forlì dove si trova dallo scorso ottobre.

L’ordinanza del Riesame si base in gran parte sui risultati della perizia statistica elaborata dalla medicina legale esaminando il biennio compreso tra aprile 2012 e aprile 2014 nel reparto dove lavorava Poggiali: su 191 decessi totali, 139 sono avvenuti nel settore in cui era assegnata la donna (87 casi oltre la media). Non è possibile, riconoscono gli stessi consulenti, attribuire altre vittime all’infermiera ma resta un incremento del tasso di mortalità «esplosivo».

Le statistiche diventano ora la base per una nuova indagine annunciata dal procuratore capo Alessandro Mancini: qualcuno sapeva e ha coperto Poggiali o addirittura la aiutò? Le ipotesi di reato a questo punto possono spaziare dal concorso in omicidio al favoreggiamento. «Difficilmente si può inquadrare il fenomeno nel chiacchiericcio o gossip da ospedale», è l’affondo di Mancini. E ora a tremare sono i vertici dell’Ausl. Vale la pena ricordare che sin dalle prima battute dell’indagine su Poggiali ci sono tre dirigenti della struttura lughese per omissioni e ritardi legati alla comunicazione della morte di Calderoni.

L’avvocato Giovanni Scudellari, incaricato dall’Ausl Romagna di costituirsi parte civile nei procedimenti penali pendenti nei confronti dell’infermiera, dichiara: «La direzione dell’Ausl Romagna ribadisce la propria assoluta disponibilità a collaborare con l’autorità giudiziaria e ad intraprendere eventuali azioni disciplinari, come già avvenuto, qualora dalle indagini stesse dovessero emergere altri profili di responsabilità. Nella consapevolezza della complessità dell’indagine in corso, si vuole infine nuovamente sottolineare la totale fiducia nell’operato della procura della Repubblica».

Sulla sorte giudiziaria della 42enne la consulenza statistica già citata «piomba – scrivono i giudici del Riesame – come un macigno». Alcuni passaggi, letti dal procuratore capo, lasciano pochi margini di interpretazione: «I risultati, che è eufemistico definire agghiaccianti, pur non consentendo di individuare le singole vittime oltre Calderoni depongono nel senso di una diuturna e sistematica opera di eliminazione dei ricoverati». Dell’infermiera emerge un profilo inquietante: «Ha dato fondo alle sue ingovernabili pulsioni criminali, uccidendo non in nome di umanità per la sofferenza di anziani malati terminali, e infatti Calderoni non era una malata terminale». E deve restare in carcere perché è «un autentico pericolo pubblico»: trovandosi di fronte al rischio di espiazione di una lunga pena sarebbe nella condizione di chi non ha nulla da perdere e quindi di pericolo per altre persone. Si legge ancora nell’ordinanza del riesame: «L’indagata si era elevata a arbitro della vita e della morte dei pazienti». E secondo il tribunale aveva voluto «alzare il livello della sfida uccidendo Calderoni nel turno diurno sotto gli occhi della figlia facendola allontanare dalla stanza solo il tempo sufficiente per somministrare il potassio», nonostante fosse già sospettata come poteva far intendere la scelta della dirigenza sanitaria di rimuoverla dai turni notturni. Secondo i giudici non c’è possibilità che le sue azioni fossero mosse da un senso di pietas, «smentita dalle fotografie in posa accanto al cadavere colto nel disfacimento della morte alternando giubilo e irrisione, in una sorta di grottesca imitazione». Poggiali è indagata anche per vilipendio di cadavere ed è stata licenziata dall’Ausl proprio per due fotografie scattate da una collega mentre posava accanto a una donna appena morta.

A proposito di quelle fotografie, dopo aver tentato in un primo momento di dire che la paziente non era morta ma solo addormentata, ora Poggiali riconosce che sono state un errore. L’ammissione avviene in una intervista rilasciata in esclusiva, tramite l’avvocato Stefano Dalla Valle, al Corriere della Sera: ammette che è stato un errore ma di aver posato solo accettando l’iniziativa della collega che ha scattato le foto e assicura si non aver mai ucciso nessuno, di non aver mai somministrato nemmeno un sedativo senza l’autorizzazione di un medico.

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