«Sfortunata, trasgressiva, autoironica» Così l’infermiera respinge tutte le accuse

Al processo Poggiali l’interrogatorio dell’imputata: due ore di fronte al pm per convincere la corte di non aver ucciso la paziente

Se nei suoi turni di lavoro i decessi erano doppi rispetto ai turni delle colleghe era per «sfortuna», quelle due foto in pose beffarde accanto a una paziente deceduta da due ore sono state «una trasgressione sciocca senza alcun significato», la battuta sulle due fiale di potassio capaci di risolvere qualunque problema è figlia della sua «brutta abitudine all’autoironia per allentare la tensione». Riassumendo: sfortunata, trasgressiva, autoironica. È il profilo che si può tracciare di Daniela Poggiali – l’ex infermiera dell’ospedale di Lugo a processo con l’accusa di omicidio volontario, con una iniezione letale di cloruro di potassio, di una paziente 78enne nel reparto di medicina l’8 aprile 2014 – sulla base delle risposte che la stessa 43enne ha dato al pubblico ministero nell’interrogatorio andato in scena nell’udienza odierna, 4 dicembre, di fronte alla corte d’assise in un’aula del tribunale di Ravenna con molte persone comuni presenti. «Ha ucciso lei Rosa Calderoni?», ha chiesto il presidente della corte Corrado Schiaretti in chiusura di udienza. «No, assolutamente», senza pause.

IL DUELLO È entrata in aula scortata dalla polizia penitenziaria (da oltre un anno è detenuta a Forlì) fino alla gabbia per gli imputati. Capelli corti sempre più scuri, trucco leggero, un piumino rosso che si è tolta subito restando in jeans, maglietta grigia aderente e una giacca nera aperta. La sua deposizione era il momento più atteso del procedimento cominciato due mesi fa. Sin dalla prima udienza l’ex dipendente dell’Ausl aveva annunciato che avrebbe affrontato il fuoco delle domande dell’accusa. Un accenno di incertezza sulle prime due parole pronunciate, dovendole ripetere dopo aver schiarito la voce: «Voglio rispondere», ha replicato alla richiesta del giudice Corrado Schiaretti, presidente della corte. E per oltre due ore il sostituto procuratore Angela Scorza ha incalzato, affrontando una dopo l’altra tutte le sfaccettature dell’inchiesta e del processo. Con il passare del tempo l’imputata è andata guadagnando sicurezza nel tono di voce, ha fatto ricorso a frequenti «non ricordo» soprattutto per vicende più addietro nel temp e ha provato pure a svicolare su percorsi a lei più consoni ma prendendosi la bacchettata dal pm: «Non dobbiamo fare un colloquio, io faccio le domande e lei risponde».

LE FOTO TRASGRESSIVE Il momento emotivamente più intenso è stato quando ancora una volta, probabilmente l’ultima, l’accusa ha proiettato sul maxischermo quelle foto già note: Poggiali in posa a scimmiottare l’espressione di morte sul volto di una paziente appena deceduta, Poggiali appoggiata alla barella in posa sorridente con i pollici alzati in segno di vittoria. «Col tempo – ha affermato la donna – ho capito che sono foto stupide fatte con un peccato di leggerezza mettendosi in una posa sciocca e fuori luogo». Gli scatti risalgono alle 20.07 del 22 gennaio 2014. La paziente era morta alle 18.10. Tutto avvenne nella stanza tanatogramma dove vengono portati i pazienti dopo il decesso in reparto. A scattare fu la collega Sara Pausini. Che sarebbe stata, secondo la versione della Poggiali opposta rispetto a quella della diretta interessata già ascoltata nelle precedenti udienze, la regista di tutto: «Mi disse che voleva una mia foto in divisa in pose trasgressive, anomale per metterla nella rubrica. Io poi le dissi di tenere solo il mio volto». La stessa sera Pausini le inviò via Whatsapp a Poggiali: «Sciupeda», le scrisse a corredo. Termine dialettale romagnolo con cui le due – «La consideravo un’amica, eravamo uscite anche insieme» – capitava si chiamassero con ironia. L’11 aprile 2014 i carabinieri le trovarono ancora sul cellulare di Poggiali e nel suo computer di casa: «Ricordo di averle cancellate, forse non sono stata così brava a farlo, non ho dimistichezza con computer e cellulari».

IL TUMORE Quelle foto hanno pesato e pesano tuttora come macigni sull’immagine dell’ex infermiera. Sono valse il licenziamento suo e della collega anche se la procura ha chiesto l’archiviazione per l’accusa di vilipendio di cadavere. Le sono costate più di un’etichetta, come sa bene il fidanzato Luigi Conficconi: «La Daniela può sembrare fredda e addirittura antipatica ma non è così», ha detto alla telecamere Rai fuori dal tribunale. Le ex colleghe ne hanno dipinto un quadro di donna prevaricatrice, vendicativa, spietata, coccolata dai superiori. Poggiali non ci sta e smentisce. A ridare una dimensione di umanità ci ha provato la difesa, avvocato Stefano Dalla Valle, facendo emergere la dedizione al lavoro di una professionista che in 17 anni di lavoro (dal 2002 al 2014 all’ospedale di Lugo e prima a Villa Maria Cecilia) non ha mai fatto un solo giorno di malattia nonostante malata lo sia stata: «Nel 2001 un tumore al sangue, otto cicli di chemioterapia senza assentarmi».

LA CALLIGRAFIA La scia di morti sospette è lunga diverse decine di nomi ma di una sola ci sono stati elementi a sufficienza per arrivare alla sbarra. Nella salma di Calderoni una presenza di potassio, trovata dall’autopsia, elevata al punto da poterla uccidere. E quindi è su quel decesso che si è dibattuto. Concentrandosi sui tecnicismi della flebo, del deflussore, dell’ago cannula, dello sperone, della concentrazione dei farmaci. La mattina del decesso, nemmeno dodici ore dopo il ricovero, solo Poggiali trattò la paziente. Lei dice seguendo le disposizioni del medico di turno. Il potassio venne trovato nel deflussore gettato dove vengono gettati i rifiuti speciali e fu Poggiali a rimuovere i presidi dal corpo dell’anziana dopo il trapasso. «Ma sulla sacca non sono io che ho scritto “Calderoni”».

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