Quelli che scrivono sulle riviste musicali. «Un campo di sperimentazione letteraria»

Francesco Farabegoli di Rumore: «La narrazione della musica è quello che dà alla musica un senso»

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Francesco Farabegoli in una foto di Francesca Cauli

In uno degli ultimi numeri il direttore di Rumore Rossano Lo Mele si diceva orgoglioso di ospitarlo – insieme ad altri – in quanto uno dei migliori critici musicali in Italia. Lui è Francesco Farabegoli, cesenate ma ormai ravennate d’adozione, noto sul web per il suo blog Bastonate, collaboratore anche del nostro mensile R&D Cult (a questo link la sua rubrica on line) e firma appunto di Rumore, una delle riviste musicali italiane che ancora si possono comprare in edicola (su una “concorrente”, Blow Up, ci scrive un altro giornalista ravennate, Federico Savini, con un’altra ancora, Il Mucchio Selvaggio, ha iniziato a collaborare in un’insolita veste di giornalista il patron del Bronson Chris Angiolini), nonostante i tempi durissimi della concorrenza proprio del web.

Abbiamo contattato Francesco per capire cosa significhi e naturalmente abbiamo pubblicato le sue risposte integralmente, come una sorta di articolo nell’articolo.

Come sei finito a scrivere su riviste di musica?
«Per via di mio fratello. Mio fratello era un modesto consumatore di musica, non aveva manco un lettore Cd, comprava 3 o 4 cassette all’anno, ma era un avidissimo lettore di riviste di musica. Portava a casa un botto di riviste e le leggeva, fondamentalmente senza ascoltare i gruppi di cui le riviste parlavano. Io le ho lette di straforo e ci sono finito in mezzo. Sarebbe un po’ come quelli che ascoltano gli Husker Du, rimangono folgorati e prendono in mano una chitarra elettrica, solo che io sono rimasto folgorato da Luca Frazzi e ho preso in mano una penna Bic».
Cosa ti piace delle riviste di musica?
«Beh la narrazione della musica è quello che dà alla musica un senso. I concerti non sarebbero un granché se fossero cose che succedono alle sette di sera a casa tua, la musica diventa bella quando è un’esperienza condivisa. E quindi raccontare la musica è un po’ come trovare modi sempre nuovi di condividerla, di tener viva una passione – che poi in realtà va anche oltre le passioni, spesso la narrazione della musica è in generale la narrazione del mondo che abbiamo intorno, o di una delle cose che nel mondo sono più presenti. Forse più di tutto però mi piace che sia un campo letterario inesplorato. Per esempio esistono grandi opere letterarie, riconosciute urbi et orbi, che parlano di amore, guerra, omicidio, politica internazionale, psicanalisi e nuclei famigliari sardi, ma non c’è un vero e proprio testo di riferimento universale per la musica, un Guerra e Pace del pop, un libro che va bene per tutto. Questo tra le altre cose vuol dire che ogni giorno qualcuno ci può provare e fa sì che – relativamente parlando – la scrittura musicale sia un campo di sperimentazione letteraria molto vivo, dinamico, fresco. Ed è molto meglio oggi che 20 anni fa, si leggono cose migliori, più complesse».
Che tipo di reazioni e riscontri hai, scrivendo su una rivista di musica?
«Reazioni di ogni tipo. La gente legge, scrive, a volte si complimenta e a volte ti insulta, quindi comunque partecipa al gioco. Perlopiù la gente che legge di musica è gente che scrive di musica, diciamo, ci hanno tutti provato o ci provano, il lettore passivo non esiste più. Del resto non so se esista più nemmeno l’ascoltatore passivo, cioè una persona che si ascolta un gruppo senza poi organizzare concerti o suonare in un gruppo o fare il giornalista il dj, il grafico, eccetera».
Quali sono i tuoi giornalisti musicali preferiti?
«Vecchia scuola: Carlo Bordone e Maurizio Blatto. Nuova scuola: Valerio Mattioli e Francesco Birsa Alessandri».

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