«Priorità da rivedere: più verde e meno centri commerciali o palazzetti dello sport»

 

Abbiamo chiesto un intervento sul “dopo coronvirus” anche a Sabina Ghinassi, critica d’arte e tra le altre cose ideatrice del progetto “Appunti per un terzo paesaggio” e del “Deriva Festival” che si occupa proprio degli spazi verdi urbani e del loro possibile impiego anche artistico.

1 Sabina Ghinassi«Il botanico Stefano Mancuso in alcune interviste rilasciate durante l’emergenza Covid ha detto che, a causa di questa forzata quarantena, siamo stati costretti a comportarci come piante, ci siamo fatti un’idea più dettagliata del nostro ambiente, siamo stati più attenti alle risorse disponibili (programmazione spesa settimanale con lista, time table familiare). Così, chiusi tra le pareti della nostra casa, l’abbiamo guardata e vissuta con più cura, abbiamo creato zone per tutti, smartworking dei genitori, Dad dei figli, abbiamo pulito gli angoli più remoti e oscuri, aggiustato elettrodomestici rotti con l’aiuto di qualche tutorial on line, gestito l’accumulo compulsivo di oggetti spesso inutili seguendo, anche inconsapevolmente, il magico Potere del Riordino di Marie Kondo. Abbiamo scoperto che di molte di quelle cose non ne avevamo bisogno, come scrive Naomi Klein ne Il Mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il clima (Feltrinelli 2019). Siamo stati costretti a comprare meno e, se l’abbiamo fatto tramite corriere, ci siamo sentiti mortalmente in colpa.

Abbiamo seminato in vasetti sui davanzali, sui terrazzi, sui balconi, in giardini e orti. Secondo Coldiretti, da quando hanno riaperto i vivai l’acquisto di semi e piante è aumentato vertiginosamente.

Abbiamo comunicato di più e in modo più essenziale e profondo e, come le piante, abbiamo attivato, paradossalmente, un senso di comunità forte, anche locale, di prossimità (di relazione tra vicini prima ignorati) ma anche su larga scala, di vicinanza intellettuale e culturale, seguendo in video qualcuno che, in un altro momento, avremmo visto in una sala conferenze con un impeccabile dress code, dopo tre ore di treno e taxi, e che invece adesso parla dalla sua biblioteca, magari un po’ disordinata come la nostra.

Siamo stati i protagonisti di un silenzio rumoroso, fatto di pensieri, ricordi, fotografie, storie e ricette dei nonni; abbiamo ritrovato materiale emotivo che avevamo perso di vista mentre correvamo nella nostra ruota da criceti compulsivi.

Siamo stati costretti a sperimentare, nostro malgrado, una sorta di Crown Shyness, il fenomeno per il quale in alcuni boschi le chiome degli alberi tendono a non toccarsi. Sulle motivazioni del fenomeno esistono varie teorie, unite comunque dalla convenienza di “comunità” (parassiti che non riescono a diffondersi da un albero all’altro, necessità di permettere alla luce di arrivare al sottobosco per nutrire altre specie vegetali in relazione semi simbiotica con l’albero e altro ancora) esattamente come la distanza sociale alla quale siamo stati sottoposti per tutelare la nostra “comunità”. Quando ricominceremo a toccarci lo faremo con timidezza anche noi.

Ma come torneremo alle nostre città? Come le vorremo le nostre città? Dopo averle viste vuote e bellissime, senza inquinamento, dopo che, a prescindere da analisi varie, fake news, post verità e verità lampanti, ci siamo resi conto che siamo fragili elementi inseriti in un grande ecosistema complesso che si sta slabbrando gradualmente per la perdita di biodiversità. Certo una relazione con Globale, ma il Globale parte dal locale. Ogni grande sistema integrato, come il mondo, è fatto di piccoli nodi e ogni nodo è fondamentale. Viviamo in territori e contesti urbani fragili che si dimostrano incapaci di adeguarsi ai cambiamenti climatici in atto e se è vero che la questione ambientale è globale, è vero anche che ha forti ricadute locali, come è accaduto nel 2019 a Venezia. In Italia noi abbiamo una caratteristica, il policentrismo urbano, che è insieme limite ma soprattutto risorsa, perché può rendere i luoghi e le nostre vite più leggeri, rapidi, esatti, visibili, molteplici e coerenti, come suggeriva Italo Calvino nelle Lezioni americane. Se lo decidiamo possiamo agire in modo più concreto di altre nazioni, solo in apparenza più forti di noi. Possiamo essere leggeri come l’uccello che sfrutta le correnti d’aria per volare, rapidi nell’identificare il ritmo perfetto, esatti nello stabilire gli obiettivi, visibili nel riusare le immagini già usate in un nuovo contesto in grado di cambiarne il significato, molteplici nella consapevolezza che viviamo in un sistema di reti e di relazioni, coerenti nell’iniziare e nel finire ciò che si è intrapreso.

Il momento perfetto per modificare il paradigma e accompagnare il cambiamento è questo. Non è una rivoluzione: in realtà in alcuni settori la trasformazione è già iniziata, ma ora può accelerare, diventare rapida. Pensiamo all’idea di città, al flusso di persone che necessariamente si modificherà, allo smartworking che consente ad aziende e ad amministrazioni di svolgere in modo forse anche più concentrato e professionale il lavoro per una parte del tempo, a una scuola che, pur non cambiando la sua vocazione di socializzazione, potrebbe alternare momenti di didattica a distanza a momenti frontali, dilatando gli orari su tutto il giorno, a classi che potrebbero essere meno numerose con un’attenzione più personale per ogni studente. E anche se, secondo le previsioni, il primo effetto sulla mobilità sarà quello di un aumento del trasporto privato, si potrebbe innalzare la quota di piste ciclabili, seguendo e dirigendo i flussi (includendo la relazione città-campagna), incentivare ulteriormente la mobilità elettrica, il riciclo dei rifiuti, digitalizzare tutto il territorio, ampliare gli spazi verdi creando corridoi e alberature, riusare il costruito, riabitare ciò che è stato abbandonato, usare il preverdissement, densificare cancellando la cementificazione del territorio, sostituire l’asfalto con pavimentazioni drenanti, rinaturalizzare i bacini fluviali, guardare il territorio attraverso una relazione di cura e ripristino, rispettandone l’identità, le caratteristiche, il genius loci, la varia umanità, le storie. Il che non significa chiudersi in un sistema rigido e vernacolare, ma mettersi in ascolto dell’identità mobile di un territorio, accettando di poter cambiare in corso d’opera ciò che si era deciso. Questo si potrebbe tradurre in una revisione delle priorità che ci si era dati nel pre-covid. Per fare un esempio, ci sarà sicuramente bisogno di azioni di manutenzione e consolidamento del territorio, ma non ci sarà bisogno, almeno nell’immediato, di grandi centri commerciali o palazzetti dello sport. Ci sarà bisogno di un nuovo tipo di buona edilizia sociale accessibile anche a chi non si può permettere un ritiro dorato nella villa con piscina. Ci sarà bisogno di una terrazza dove si possa sperimentare un orto domestico o un piccolo giardino, di avere più verde a disposizione, per passeggiare o per farsi una corsa, per portare i bambini a giocare e fare un pic nic o, più semplicemente, per vedere i rami di un albero dalla finestra. Ora queste sono le priorità, cose semplici e preziose.

In realtà, per queste priorità, la Roadmap c’è già e basta seguirla: sono i 17 Obiettivi Sostenibili per il 2030 dell’ONU, la Carta di Bologna e il New Green Deal della Comunità Europea. Abbiamo già scritto tutto, ora le parole devono prendere per mano le cose e renderle concrete.

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