«Verso un nuovo modello abitativo, per riflettere anche sul tempo e la condivisione»

 

Abbiamo chiesto un intervento sul tema dell’abitare, in ottica “dopo virus”, a Gianluca Bonini, ingegnere civile e fondatore con Emilio Rambelli di Nuovostudio di Ravenna, la cui attività spazia dall’architettura all’urbanistica, dal design industriale a quello di interni. Molto significativa per Bonini è l’esperienza nel settore del retail design, che lo ha portato a progettare boutique di lusso nelle location più importanti della moda internazionale.

Bonini Rambelli Nuovostudio

Bonini (a sinistra) con l’architetto Emilio Rambelli, con cui ha fondato Nuovostudio

«L’11 marzo scorso, come ricorderemo a lungo, venne pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il “Decreto #IoRestoaCasa”, il provvedimento che ha esteso a tutto il territorio nazionale quello che ormai tutti chiamiamo lockdown. Quarantena è in effetti un termine superato, non fosse altro per il fatto che di giorni da allora ne sono passati ben più di quaranta: a oggi (Bonini ci scrive il 28 aprile, ndr) sono sette le settimane trascorse in casa, a fare i conti con un evento planetario che nessuno, tranne Bill Gates forse, avrebbe mai immaginato potesse accadere.

Improvvisamente perciò la casa è diventa il centro della nostra vita, venendo ad assumere un ruolo che probabilmente mai, nella storia recente, era stato così centrale, soprattutto per chi abita nei grandi centri urbani. In passato, nella città antica, il luogo dell’abitazione era connesso al luogo di lavoro, le case-bottega si ritrovano dall’epoca romana alla prima era industriale. Cosa è cambiato? L’industrializzazione ha mutato profondamente la geografia sociale dei territori, muovendo enormi flussi di persone dai borghi rurali alle città, che hanno visto decuplicarsi il numero dei loro abitanti. Sono nate così le metropoli dell’era moderna, fenomeno ormai storicizzato in occidente ma tutt’ora in forte sviluppo in Cina, dove nell’ultimo decennio sono cresciute megalopoli dai nomi spesso sconosciuti: Chongquing, ad esempio, ho scoperto solo recentemente che è, coi suoi 36 milioni di abitanti, l’area metropolitana più grande del mondo!

Questa rivoluzione sociale ha ridotto drasticamente lo spazio a disposizione, rendendolo inoltre enormemente costoso: nelle aree centrali delle principali città i prezzi sono elevatissimi: alcuni attici su Central Park a New York hanno raggiunto anche i 100mila euro al metro quadrato, ma senza andare così lontano è facile trovare nel centro di Milano appartamenti con prezzi superiori ai 10mila euro al metro. Questo ha portato la speculazione immobiliare a mettere sul mercato unità minime d’abitazione, pensate per singoli o per coppie, che di fatto usano la “casa” solo per dormire e forse mangiare, magari solo alla sera, magari solo qualche volta nei week end. Tutte le altre funzioni e servizi, infatti, si devono trovare fuori casa: la palestra, il cibo (numerosi ormai i food deliveries), la lavanderia, la scrivania sulla quale usare un computer. Nelle grandi città i mezzi per spostarsi sono pubblici e ciò ha portato a non aver bisogno dell’auto, che si noleggia quando serve. Se poi ce l’hai, la tieni in strada e la porti a lavare dal benzinaio. Se hai famiglia, e vivi in un capoluogo importante, o hai molte possibilità economiche per vivere in centro oppure ti sposti verso la periferia dove i prezzi sono sono più bassi e c’è la possibilità di comprare un immobile più grande.

Ma in definitiva come è la nostra casa? Un recente articolo apparso sul Sole 24 ore ci racconta che dai dati Istat emerge che il 60 percento delle case italiane ha solo un bagno, che un terzo non ha né terrazzo né balcone, e che soltanto l’8 percento è stata costruita dopo il 2000 e ha quindi standard qualitativi più vicini alle attuali richieste normative. A livello dimensionale è in media di 68 mq nelle città medio grandi e di 92 mq in provincia.

Improvvisamente, però, e da un giorno all’altro, quella casa dei dati statistici non è più solo il luogo dove si dorme e si mangia ma di colpo si è dovuta trasformare in un oggetto multi funzione, dove molti si sono trovati a dover lavorare, studiare, passare il tempo libero e magari fare sport. Tutti, quindi, salvo pochi privilegiati, si sono trovati a fare i conti con la propria abitazione: la nuova dimensione della convivenza forzata con gli altri membri del nucleo familiare ci ha fatto desiderare un casa più grande, una casa dove ognuno possa godere di un po’ di privacy oppure poter lavorare a un pc mentre i figli fanno home-schooling.

Nelle ultime settimane, poi, l’arrivo della primavera ha fatto desiderare a chi non lo possiede o un terrazzo o un un giardino, e magari una casa con delle “risorse”. Eccoci quindi a maledire gli open space disegnati negli ultimi anni, quei soggiorni con angolo cottura dove nessuno può fare niente senza disturbare inevitabilmente gli altri. Milioni di case senza ingresso, con camere da letto dove una scrivania entra a fatica, con balconi troppo piccoli per poterci pranzare, figuriamoci per farci stare un barbecue. Case nelle quali una lavanderia è un sogno, e lo stendino dei panni sta inevitabilmente aperto tra i divani.

È molto che nell’ambiente dell’architettura si parla di un nuovo modello abitativo, esigenza che è cominciata ad imporsi come riflessione negli ultimi anni di crisi economica, quelli che hanno portato ad enormi divari nella forbice dei valori immobiliari: prezzi altissimi in pochi centri strategici a forte richiamo economico, mortificazione delle aspettative in quasi tutto il resto del Paese. Questo ha portato, come conseguenza inevitabile di un ragionamento più vasto che ci impone la necessità di contenere spese e consumi, in ogni ambito, alla conseguente revisione dei valori esistenziali considerati non sindacabili dalle persone.

Quali sono perciò i fondamentali emersi? Innanzitutto un maggiore valore dato al proprio tempo, sia lavorativo sia libero, vissuto in proprio o con i propri cari, familiari, conviventi o amici che siano. Di certo l’ambiente, il rispetto per le risorse e la necessità di non sprecarle: ambientali, energetiche o economiche. Il risparmio energetico, che è al contempo rispetto per l’ambiente, è diventato metafora vasta, se vogliamo una nuova riflessione etica sulla vita. Conseguentemente la qualità del lavoro, così come la qualità del luogo in cui si lavora e soprattutto del luogo dove si vive sono a buon diritto rientrati nel dibattito collettivo. Concetti come co-working e co-housing si ritrovano sempre di più spesso come temi sui quali ragionare. Questo perché condividere significa non sprecare risorse, e porta a completare le poche stanze private del proprio alloggio con aree a giardino o ad orto, con una piccola palestra (chi non l’avrebbe voluta in casa in questi giorni?), una lavanderia condominiale o uno spazio collettivo da usare per il tele lavoro o la scuola dei bambini.

I casi sono in crescita, a partire dalle grandi città come Milano dove questo tipo di approccio, basato sui concetti della “Psicologia dell’abitare” porta alla definizione di concept abitativi di fascia medio-alta per appartamenti circondati dal verde in contesti pieni di servizi comuni come piscina, orti, frutteti, spazio per il tempo libero, per arrivare ad esperienze più orientate all’aspetto sociale come le CaseFranche a Forlì dove chi abita condivide l’etica del bene comune e i servizi sono la partecipazione a gruppi di acquisto solidali, la mobilità condivisa o la banca del tempo.

Questi concetti stanno portando a una maturazione dell’approccio con il quale oggi si affronta il progetto residenziale, specie se di ambito territoriale. La nostra più recente esperienza di studio ci ha visti, specie nell’ultimo anno, molto impegnati nella lettura dell’evoluzione della sensibilità collettiva sui temi dell’abitare: un gruppo di lavoro coerente a queste istanze deve infatti coinvolgere non solo l’architetto, il paesaggista, l’esperto di tematiche ambientali ma, oggi, anche un sociologo ed uno psicologo. Le istanze di rinnovo erano già ricche di fermento, ma ritengo che queste settimane di fermo dalle dinamiche del quotidiano abbiano avuto un piccolo aspetto positivo, se è possibile e opportuno chiamarlo tale, che è stato quello di consentire al pensiero critico di poter condurre a compimento riflessioni che erano si presenti nel dibattito disciplinare, ma ancora solo in fase germinale.

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