In provincia più di 300 aziende di apicoltura: producono il 5% del miele italiano

Gli alveari sono quasi 14mila. Una panoramica con l’Ara, cooperativa con 450 associati

Api Miele Alveare Pappa RealeLe aziende di apicoltura della provincia di Ravenna sono più di trecento e producono circa il 5 percento dei centomila quintali annui di miele italiano, sufficienti per coprire metà del fabbisogno nazionale.

I dati vengono dall’Associazione romagnola apicoltori (Ara) che ha sede a Bagnacavallo e riunisce in cooperativa circa 450 apicoltori distribuiti da Ferrara alle Marche, da Castel San Pietro alla costa.

«In Emilia-Romagna l’apicoltura ha radici nel passato – spiega Riccardo Babini, direttore tecnico dell’Ara –. Il babbo e lo zio di Raul Gardini erano grossi produttori di miele all’inizio del ‘900 e tuttora un modello di arnia si chiama “Gardini”. In questa regione è stata fatta la selezione genetica per arrivare alla razza ligustica, la più produttiva al mondo che infatti è stata esportata ovunque».

L’Ara nasce nel 1981 come associazione solo ravennate, prendendo il posto dei consorzi di epoca fascista a cui ogni apicoltore doveva iscriversi obbligatoriamente. Nel 2004 la trasformazione in cooperativa, dal 2007 la sede a Bagnacavallo: «Facciamo assistenza tecnica e distribuzione materiale per l’attività professionale. Ma anche commercializzazione all’ingrosso del miele dei nostri associati: il 90 percento viene venduto alla Rigoni di Asiago, il secondo marchio italiano per produzione dopo Ambrosoli».

Chiunque possieda almeno un’arnia, anche se la tiene in modo stanziale per autoconsumo, è tenuto a fare denuncia alle autorità per essere inserito nella banca dati apistica (in provincia sono presenti 1.600 apiari con 13.750 alveari, ognuno dei quali contiene in media 50mila insetti): «La posizione degli alveari va comunicata all’Ausl e vanno comunicati gli spostamenti. È una ragione sanitaria: se si diffonde una malattia viene creato un cordone a un raggio di alcuni km entro cui non possono essere spostate altre arnie per evitare il contagio».

Fino agli anni ’70 quasi ogni azienda agricola in Romagna aveva le sue api: «Erano quasi considerate un animale da corte, servivano per un prodotto da consumare in casa. Anche perché avere un centinaio di arnie era davvero molto impegnativo con i mezzi e le tecnologie di un tempo. L’apicoltura è diventata più complessa e sono rimasti solo gli appassionati. Adesso però un centinaio di arnie sono un numero che si può gestire con più facilità. Le grandi imprese italiane ne hanno fino a due-tremila che vengono dislocate in varie regioni. In America ci sono aziende da 20mila alveari».

Le regole della produzione sono dettate dalla domanda del mercato. Il miele di acacia è il più richiesto: «È l’immagine che abbiamo nei ricordi da bambini. È il più facile da gustare, ha un sapore piatto, può sostituire lo zucchero nel caffè. Altri mieli invece possono essere anche amari. E poi di acacia risulta più trasparente, piace di più da vedere. Anche se è meno ricco di sali minerali che però lo rendono più scuro». Diverso il mondo tedesco: «In Germania non ci sono molti fiori che producono polline ma le api sono attratte dalla parte zuccherina rilasciata dalle piante per effetto degli afidi che succhiano la linfa. Per capirci è quella cosa appiccicosa che troviamo sul parabrezza quando parcheggiamo sotto un albero. Da quella le api producono la melata ed è nera. Se non è così, non funziona su quel mercato».

La novità dell’apicoltura è il trasferimento in ambiente urbano: «Sta prendendo piede per due più ragioni. In inverno le temperature sono più miti rispetto alle campagna. E poi c’è una disponibilità di giardini e terrazzi con piante che in campagna non si trovano. E c’è meno inquinamento fitosanitario perché non ci sono trattamenti intensivi».

Il settore sta attirando nuovi imprenditori, non solo figli di apicoltori che ereditano le aziende: «Stiamo vedendo che ci sono giovani che cominciano da zero. Un motivo è stato certamente l’andamento del prezzo del miele, sempre cresciuto negli ultimi dieci anni».

La cooperativa che associa qualche centinaio di produttori può fare una sintesi dei problemi principali lamentati dagli apicoltori: «Prima di tutto l’aumento delle malattie delle api – dice Babini –. C’è l’acaro varroa che si comporta come una zecca e attacca le larve, però non ci sono numeri tali da portare le case farmaceutiche a fare ricerca con insistenza. Il secondo problema è il cambiamento climatico: stiamo avendo inverni miti che risvegliano le api e primavere con gelate notturne che distruggono le fioriture necessarie per il nettare. Infine il terzo problema è la chimica in agricoltura. Ci sono regole che governano le modalità di trattamento dei campi ma capita sempre qualche incidente, anche in buona fede, magari di qualche contadino che ha seguito le indicazioni di un tecnico agrario che non ha tenuto in considerazione di tutelare le api».

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