Fausto Fori si racconta: ricostruire e ricostruirsi dopo l’incendio

Il pittore parla del rogo che ha distrutto il suo atelier in centro a Ravenna e gran parte delle sue opere, segnando una sorta di rinascita per l’artista, ora impegnato a “ritrovare la luce” FOTO/VIDEO

Lo studio di via Tombesi prima e dopo il rogo

Sono le ore 19:30 circa del 20 gennaio 2022, quando gli abitanti di Via Tombesi dall’Ova, nel centro di Ravenna, vedono fuoriuscire del fumo dalle saracinesche abbassate dell’atelier del pittore Fausto Fori, dando così l’allarme e permettendo ai vigili del fuoco di domare l’incendio che stava consumando le decine di opere d’arte contenute al suo interno.

L’atelier di Fausto Fori, o meglio il “posto di Fausto”, non era il comune studio di un artista: al suo interno erano appesi e accatastati qua e là una gran quantità di bozzetti, dipinti, sculture, installazioni e cimeli. Un horror vacui intriso di fascino che raccoglieva pezzo per pezzo i frammenti della storia personale del pittore, dai documenti attestanti le travagliate origini della sua famiglia alle reliquie collezionate lungo la sua intera vita: fotografie e oggetti appartenuti ai personaggi più significativi incrociati lungo il suo cammino.
Si trattava per lo più di oggetti comuni, dall’aspetto vissuto, il cui spessore era più che altro conferito dalle pittoresche narrazioni del Fori, come ad esempio la sedia su cui potrebbe o non potrebbe essersi seduto Van Gogh in persona.

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Fausto con indosso il cappotto bruciato dalle fiamme.

Proprio a causa dell’unicità di questo luogo e della quantità di vita in esso tramandata, la notizia dell’incendio non ha sconvolto solamente il diretto interessato ma anche parte della comunità locale: l’atelier dietro Largo Firenze era infatti era divenuto nel suo piccolo un luogo simbolo del crocevia ravennate di curiosi e passanti che si affacciavano alla finestrella dello studio che come un sipario separava la vita ordinaria dallo straordinario immaginario di Faustino.

Lo incontro proprio lì, tra le ceneri di quello che era il suo laboratorio. Ora è quasi completamente spoglio, vestito solo del nero che le fiamme hanno impresso sui muri. A terra qualche quadro, qualche attrezzo e una vecchia sedia in vimini sulla quale si siede prima di iniziare a raccontarsi e raccontare della sua recente perdita.
Senza la cortina di fumo dell’accatastarsi delle sue invenzioni, mi rendo conto che anche nella rovina l’atelier continua a mantenere viva parte del suo fascino, dato probabilmente dalla personalità
eclettica e bohémien di Fausto stesso più che dalla sua stessa produzione artistica.

Dopotutto, nella filosofia di Fori, nell’arte è bene che siano il trasporto e l’emozione a prevalere sulla tecnica. È lui stesso a rivelarmelo, parlando della prima forma d’arte da lui approcciata, la poesia: «Avevo circa 16 anni, ero molto insicuro all’epoca, non mi andavo bene come persona. Questa insicurezza mi causava una forte balbuzie quando comunicavo con gli altri. La poesia era per me l’unico modo di esprimermi e nasceva da questa necessità. Scrivevo poesie semplici, perché il mio vocabolario non era molto ricco, ma la cosa importante per me era riuscire ad emozionare chi leggesse».

La scoperta della pittura invece arriva in età adulta, da già sposato. Opera dopo opera, inizia a riempire dapprima le pareti di casa, poi le intere stanze. Ricorda quei periodi sorridendo: «Avevo ossessionato mia moglie, poveretta! Non era più una casa quella dove abitavamo, tutti gli spazi erano cosparsi di quadri e tavole. È una donna molto intelligente però e ha capito quanto fosse importante per me. Devo ringraziarla per avermelo permesso così a lungo. A un certo punto ho comunque capito che era l’ora di trovarmi uno studio tutto mio».

E così fece, affittando un locale in via Alberoni che ancora oggi ricorda con infinita dolcezza e un po’ di malinconia: «Sono molto legato al ricordo di quel posto, in quel palazzo c’erano tanti altri artisti e pittori e si creavano situazioni interessanti. Facevo i miei piccoli spettacoli in giardino, circondato dalle mie opere e installazioni. Era molto bello, organizzavo anche parecchie feste in quel periodo, c’era un gran via vai di gente…». Fu proprio l’intimità di questo luogo a dare a Fausto la possibilità di sperimentare e giocare con la propria arte: gli ampi spazi gli permettevano di dipingere tele di grandi dimensioni che venivano poi esposte in giardino e lasciate alla mercé delle intemperie. «Lasciavo che vento e sole e piogge consumassero i miei lavori. Volevo che la mia arte avesse la capacità di mutare, mi piaceva vedere le mie opere trasformarsi».

La vetrina dell’atelier

Dopo quasi 12 anni trascorsi in via Alberoni, Fausto si trova però costretto a dover lasciare lo studio, finendo per acquistare quello che all’epoca non era nulla più di un garage sfitto in via Tombesi. Di mese in mese, inizia a prendere forma l’atelier che gli ha permesso di mettersi in mostra agli occhi della città. «Questo studio è stato un’ottima vetrina per me. Avevo allestito un ingresso molto particolare: i miei disegni, le mie cornici, creavano una sorta di sipario dietro al quale potevo recitare la mia parte. Mi è sempre piaciuto recitare, però le mie interpretazioni sono sempre state in qualche modo vere: Non mi esibivo, ero semplicemente ciò che volevo apparire».

Ritrovandosi oggi nel vacuo scheletro di quel locale che per anni si era fatto museo e teatro, robivecchi e palcoscenico dove Fausto, con il romanticismo dei suoi racconti, mescola magistralmente fantasia e realtà fino a far dissolvere il confine che le divide, è inevitabile guardarsi intorno e chiedersi, tra le tante cose perdute (dagli schizzi dei volti delle passanti alle installazioni dorate) quale sia stata la scomparsa più dolorosa per l’artista: «Un quadro che ritraeva Clara, la mia maestra delle elementari. Il volto non l’avevo dipinto io, era stato preso da una fotografia, io l’avevo solo vestita. E l’avevo vestita con le sue stesse parole, prese dalle sue poesie». Ma a parte il dispiacere, non sembra esserci troppo spazio per la malinconia in Fausto, per lui è già tempo di guardare avanti, di ricostruire e ricostruirsi.

Lo spargersi della notizia dell’incendio, le cui cause restano ancora ignote, ha fatto sì che un nutrito gruppo di ammiratori e simpatizzanti si stringesse intorno all’artista abbozzando anche collette e raccolte fondi a suo favore, viste le ingenti spese di restauro a cui si dovrà fare fronte.
Da questi gesti di affetto Fausto ha trovato un pretesto per far rinascere la sua arte dalla tragedia: installa davanti alla sua vetrina la “cassettina della ricostruzione”, presidiata da lui in persona che ogni sera, con un megafono “imprestato” da un amico, decanta ai benefattori le sue poesie, fotografando i loro volti per poter donare a tutti, in futuro, un ritratto in cambio dell’aiuto ricevuto.  Questa iniziativa ha avuto però vita breve, Fausto ne parla con gratitudine e un velo d’imbarazzo: «Non volevo ricevere beneficenza in realtà, mi sembrava di andare a chiedere l’elemosina. Mi ha fatto molto piacere sapere di queste collette, ma non ho fatto davvero nulla per mantenerle attive, anzi, per ricompensare chi voleva offrirmi una piccola somma, ho promesso in cambio uno dei miei ritratti o una poesia, ma la cosa poi è naufragata, anche per mio volere».

L’unica installazione sopravvissuta alla notte del 22 gennaio

I lavori di restauro sono già attivi, ma è ancora difficile immaginare cosa potrà risorgere da queste ceneri e quanto ci vorrà per far sì che nuovi volti e nuove tele affollino lo studio, andando a tratteggiare nuovamente i dettagli di quella stanzetta dorata sospesa nel tempo. «Ci ho pensato tanto e sono arrivato alla conclusione che il mio nuovo studio, a differenza dei vecchi che erano invasi dalle ombre, per la prima volta sarà immerso nella luce. Voglio ritrovare la luce».

La nuova visione di Fausto sorprende lui stesso per primo. In quella che vede come ultima tappa del suo percorso artistico, cerca leggerezza.
Il fuoco che ha bruciato l’accatastarsi delle opere e memorie di una vita, gli ha permesso di liberarsi da costrutti e abitudini e di aprire il suo spazio a qualcosa di nuovo: «Non ci saranno legni e cose ingombranti, voglio che questo diventi un luogo di incontro. Ho conosciuto tanti giovani talentuosi in questi anni, scrittori, pittori, cantanti. Mi piacerebbe trasformare questo luogo in un punto di aggregazione che possa unire più generazioni, un luogo dedicato all’arte e allo scambio. Voglio che queste persone parlino, non voglio più essere l’unico protagonista, mi piacerebbe aggiungere altri personaggi alla mia storia».
Le porte della bottega di Faustino sono sempre state aperte a  tutti coloro che avessero voglia di ascoltare. La necessità di condivisione scaturita dalla perdita vuole ora trasformare ciò che era la ribalta di un unico attore nella più informale delle agorà, che ha come sola pretesa quella di farsi punto di unione e scambio. 

Prima di salutarci, Fausto mi ringrazia emozionato, chiude gli occhi e ispira profondamente: «Nel mio nuovo atelier vedo nuovi spazi. Spazi che prima non avevo mai percorso. Non ho ancora definito bene i contorni, ma so per certo che vorrei essere qualcosa di diverso da ciò che sono sempre stato. Non sarà facile, perché cambiare a 70 anni non è mai facile, ma cercherò di rinnovarmi. Immaginando di entrare dentro questo nuovo studio è come se mi apparissero all’improvviso tutti i visi delle persone che ho conosciuto grazie a questo bel posto».

Riprese e montaggio di Lorenzo Drei, fotografie di Maria Vittoria Fariselli

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