Quando ci siamo rassegnati ad aspettare sette ore,su una sedia, al pronto soccorso?

Riceviamo e pubblichiamo da un nostro collaboratore una testimonianza, l’ennesima, dopo una spiacevole esperienza al pronto soccorso di Ravenna. Convinti che bisogna continuare a parlarne.

Pronto Soccorso

La domanda cruciale è: come e quando ci siamo rassegnati a questo stato delle cose? Dev’essere stato il famoso processo della “rana bollita”, un po’ alla volta, forse mentre eravamo in fila per i primi vaccini o al pala de André in auto, per i tamponi del Covid. Le liste di attesa erano già lunghe, poi sono diventate sterminate, i medici di famiglia sono diventati impossibili da reperire o quasi e l’arte di adattarsi ha preso il sopravvento. Molti vanno ormai nel privato. Ma il pronto soccorso privato (ancora) non c’è.

E così succede che sette ore di attesa in un normale venerdì di ottobre per essere visti al pronto soccorso di Ravenna dopo una caduta in bicicletta (ma vogliamo parlare di piste ciclabili? No, va beh, meglio di no) e in totale undici ore per la dimissione con una costola rotta diventano la norma. Anzi, cosa vuoi lamentarti che in fondo è gratuito? In fondo, tac e raggi X sono stati fatti e la diagnosi (inaspettata) è arrivata. Del resto lo sappiamo, al pronto soccorso di Ravenna, che serve un bacino di utenza che va ben oltre il comune, c’è un solo medico in servizio. Non di notte, non nei festivi, sempre. E per quanto il medico in questione possa lavorare indefessamente, uno è e uno resta.

Ma sette ore seduti su una sedia, con dolori a spalla, braccio, ginocchio, ecchimosi in volto sono lunghissime. Lo sappiamo, lo abbiamo letto allo sfinimento: non si trovano medici. I pronto soccorso sono diventati luoghi da cui il personale fugge. «Meglio la miniera che qui» si sente dire da un’ex operatrice passata a salutare gli ex colleghi. E non si stenta a crederle. Anche da pazienti, si potrebbe pensare. Qualsiasi posto piuttosto che il pronto soccorso, ma quando dal Cau ti dicono che quell’ematoma in volto fa sì che loro non possano curarti, non ti resta altra scelta. Quindi vai e ti prepari ad aspettare “qualche ora”, ti dicono dal Triage. Qualche ora in cui sei da solo, su una sedia da cui a tratti hai paura di alzarti o allontanarti per timore di ritrovarla occupata. Perché ci sono diversi momenti in cui il posto per tutti non c’è.

In generale hai paura di allontanarti perché speri sempre che quella porta si apra e qualcuno chiami il tuo nome e se tu in quel momento sei alle macchinette a prendere qualcosa da mangiare o bere non puoi sentire né vedere. E quindi? Cosa succede? Quante altre ore dovrai restare lì se salti la chiamata? Quante altre urgenze potrebbero arrivare per quell’unico solitario medico?

Intanto ci sono i lavori in corso, con sottosfondo di trapani e quant’altro. La gente in attesa parla, si lamenta, litiga, soprattutto telefona, rigorosamente e maledettamente in vivavoce. Ma il punto estremo di esasperazione arriva quando vai in bagno. Apri una porta su un antibagno con altre due porte e su una campeggia un foglio scritto a mano: “Guasto”. Resta l’altro per uomini, donne, sani e malati, chiunque passi di lì, insomma. L’altro bagno, un po’ oltre ma comunque vicino, emana un odore da far rimpiangere un autogrill. Torni alla tua sedia e fame, stanchezza, lo choc della brutta caduta, il dolore, il mal di testa lancinante cominciano a farsi sentire. Ti viene proprio da piangere, in silenzio, vergognandoti anche un po’. Non lo fai apposta, stai proprio crollando. Ma il poco personale che vedrai passare avrà sempre lo sguardo alto, in modo da non incrociare quello di nessuno dei presenti, forse per non perdere inutile tempo a fornire risposte che non ha.

Dopo sei ore, provi a chiedere almeno una barella su cui stenderti, ma no, barelle non ce ne sono più, meglio tenersi stretta la sedia di metallo. Intanto qualcuno, esasperato, cerca di entrare nell’ambulatorio tra una visita e l’altra chiedendo udienza e (incredibilmente) qualche volta la ottiene. Ti suggeriscono di fare lo stesso, e ci provi ma guarda caso è proprio arrivato il tuo turno, dopo sette ore. La barella ora, dopo la visita, te la trovano e (finalmente) ti chiedono se vuoi qualcosa contro il dolore, un banalissimo farmaco da banco, mica morfina. Così le restanti quattro ore e mezza che ti aspettano dalle dimissioni passano in un lampo, o quasi. Nel mezzo si sono dati il cambio tre medici, tutti gentili, tutti umani, anzi, tutti sicuramente un po’ supereroi. A loro non si può chiedere di più, se non di resistere.

Ma se la situazione è questa, davvero è chiedere troppo che ci siano da subito almeno abbastanza barelle? Che alla gente sola venga chiesto se ha bisogno di mangiare, o che i distributori automatici siano almeno a vista, che i bagni siano in numero e condizioni congrue? Davvero anche questo è chiedere troppo? Ci diranno che ci sono i lavori in corso, immagino. Che dopo andrà tutto meglio. Dopo, sempre dopo. Eppure oggi è il dopo di qualche tempo fa, e non va certo meglio…

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