Scrivere di musica: intervista doppia ai due critici premiati al Mei di Faenza  

Eddy Cilìa e Carlo Bordone tra giornalismo e passione, tra dischi
consigliati e band di culto, tra internet e gruppi preferiti

Nell’ambito dello sterminato programma del Mei di Faenza, c’è spazio anche per riconoscimenti nazionali rivolti al mondo del giornalismo musicale.

I primi classificati di ciascuna categoria  saranno premiati domenica 4 ottobre dalle 16 nella sala del consiglio comunale. Tra questi due torinesi: un veterano del settore come Eddy Cilìa (53 anni) e Carlo Bordone (47 anni), primi a pari merito nella sezione “blog” rispettivamente per il sito venerato-maestro-oppure.com e withnailblog.wordpress.com. Blog che sono solo l’appendice di due carriere nate e che tuttora continuano sulla carta stampata (Cilìa scrive per le riviste Audio Review e Blow Up, Bordone per il mensile Rumore e per il Fatto Quotidiano). Ne abbiamo approfittato per parlare di giornalismo musicale, e di musica, in questa intervista doppia.

Come e perché si diventa critici musicali?
Carlo Bordone (nella foto qui sotto): «Per caso e per passione, credo. Non è così difficile iniziare, comunque: basta proporsi a qualche giornale, scrivere in italiano almeno accettabile ed essere disposti a essere pagati poco o più spesso niente».
Eddy Cilìa (nella foto più in basso): «Da piccolo ho sempre pensato di voler fare il giornalista, crescendo mi sono innamorato della musica e così ho cercato di unire le due cose, anche se ci sono riuscito forse solo per caso: se nessuno mi avesse pubblicato i primi pezzi magari oggi farei il professore di storia…».

Qual è stato il vostro primo articolo pubblicato da un giornale?
C.B.: «Se ricordo bene, era la recensione di un disco dei Posies su Rumore. 1996, circa».
E.C.: «Era un articolo di una pagina sul disco postumo dei 101’ers, il primo gruppo di Joe Strummer dei Clash, uscito nel 1983 sul Mucchio Selvaggio. I miei primi articoli furono però in realtà quelli su Television e Stray Cats usciti sul Mucchio nei mesi successivi».
Qual è il pezzo a cui siete più affezionati?

C.B.: «Un articolo su Elliott Smith, uscito sul Mucchio poco dopo la sua morte».
E.C.: «Sinceramente non saprei».
E ce n’è uno che vi vergognate di avere scritto?
C.B.: «Nessuno in particolare. Ovviamente a distanza di diciotto anni c’è ancora chi mi rinfaccia la stroncatura di Ok Computer, sempre su Rumore. Non rinnego il giudizio, oggi però mi imbarazza il tono saccente e sprezzante che utilizzai. Ero giovane e sciocco».
E.C.: «Direi che non provo imbarazzo nel rileggermi. Anche articoli di 30 anni fa, magari erano sbagliati nella sostanza, raramente nella forma».

In Italia, che non è l’America e neppure il Regno Unito, si può campare facendo nella vita il critico musicale?
C.B.: «No. Io oltre a scrivere di musica faccio il copywriter e insegno comunicazione».
E.C.: «Un ragazzo che volesse provarci ora ha possibilità di riuscirci pari allo zero. Quelli della mia generazione invece forse ce la fanno ancora, senza diventare ricchi, si sopravvive. Al momento io posso dire di campare solo scrivendo di musica, sì».

Ma è vero che per fare il critico bisogna essere (o essere stati) anche musicisti?
C.B.: «Non so suonare alcun strumento, né ho mai avuto ambizioni musicali. Non penso che per un critico musicale sia necessario aver suonato più di quanto sia necessario per un critico cinematografico aver girato un film o per uno letterario aver scritto un romanzo».
E.C.: «Credo sia indispensabile essere musicisti se ci si occupa di musica classica. Per il jazz magari può aiutare. Per il rock e il pop invece credo contino di più gli ascolti e l’avere una chiara idea storica di come si sono sviluppati i vari generi».

Chi è stato il vostro più grande modello?
C.B.: «Al di fuori del giornalismo musicale, sogno di riuscire a raggiungere un giorno lo stile e la classe inarrivabili di un Gianni Clerici, per me la più grande firma vivente del giornalismo italiano. Ma temo sarà impossibile».
E.C.: «Penso che in Italia chi ha iniziato nei primi anni Ottanta non poteva che avere come modello Riccardo Bertoncelli».
E il giornalista musicale italiano che più apprezzate?
C.B.: «Sono cresciuto leggendo Bertoncelli, Guglielmi, Sorge, Campo, ovviamente Eddy. Tra chi ha iniziato quando ho iniziato io, o dopo, per non far torto a nessuno  mi limito a citare un solo nome ma è quello di un fuoriclasse assoluto: Maurizio Blatto».
E.C.: «Ne cito solo uno, che poi non può neppure essere definito un critico, per non far torti a nessuno: Maurizio Blatto, autore di due libri meravigliosi».
Cosa non sopportate invece dei vostri colleghi e della stampa musicale?
C.B.: «Ho paura che sarebbero le stesse cose che non sopporterei in me, vedendomi dal di fuori. In generale mi infastidiscono le polemicucce e le parrocchiette. E un’altra cosa che mi irrita è la mania del revisionismo un tanto al chilo, sia in positivo che in negativo. Un conto è rileggere con nuovi strumenti critici qualcosa che si dà per scontato, un altro è far credere che gli 883 siano stati fondamentali o che i Beatles in fondo in fondo fossero una merda. È una pratica stupida, superficiale e narcisistica per chi la fa».
E.C.: «Non ho nessuna pazienza per la forma sciatta, indipendentemente da quale sia il tema di cui si scrive, e la stampa musicale è anche parecchio sciatta. Tanto per intenderci, preferisco leggere qualcosa che è scritto bene ma che parla di musica che non mi interessa piuttosto che il contrario. Faccio un esempio per tornare alla domanda sui giornalisti che ammiro: Valerio Mattioli scrive così bene che lo leggo sempre anche se spesso parla di musica che io detesto».

Un’intervista che vi ha lasciato qualcosa?
C.B.: «Molte. Dovendo scegliere quella a John Lydon: mi immaginavo di essere accolto a rutti e insulti, è stata invece una delle conversazioni più piacevoli e divertenti che abbia mai avuto con un musicista».
E.C.: «Non ho mai fatto tante interviste, ma ne ricordo in particolare due, con tutti i limiti della conversazione telefonica: un assolutamente squisito Arto Lindsay e poi uno dei miei eroi con cui ho finito quasi con il litigare, ossia John Cale, strepitosamente scostante, ma anche troppo».
Un’intervista letta, invece, che vi ha lasciato qualcosa?
C.B.: «Anche qui tante. Andando molto indietro con la memoria, ne ricordo una bellissima di Guido Chiesa agli X, su un vecchio Rockerilla. Roba che mi faceva venir voglia di partire subito per Los Angeles e andare a trovarli».
E.C.: «Non ne ricordo una particolarmente rivelatrice, ma di certo i giornalisti inglesi e americani, anche per il fatto che spesso ne scrivono dopo aver passato un giorno intero con gli artisti, sono dei maestri e con alcuni di loro, i più bravi, l’intervista rappresenta un’autentica forma d’arte»

Quante volte ascoltate un disco prima di recensirlo?
C.B.: «Dalle tre alle cinque».
E.C.: «Tendenzialmente scrivo dopo almeno quattro ascolti, di cui l’ultimo molto attento, prendendo appunti. A volte può capitare di essere costretti a dovere fare più in fretta ma posso dire di non aver mai scritto di un disco senza averlo ascoltato almeno due volte, di cui una con estrema attenzione».
Cambiate spesso idea con il tempo sui dischi?
C.B.: «Certamente. Ma non è detto che l’idea nuova sia più giusta di quella originaria. Non mi pento di nessuna stroncatura o recensione positiva, quando le ho fatte ero convinto di quello che scrivevo».
E.C.: «Può capitare, fortunatamente non spesso per dischi di cui avevo scritto. Ma quando capita non ho mai avuto problemi a tornare sui miei passi e a scriverlo».

Come ascoltate musica e in che modo? Utilizzate Spotify o lo streaming?
C.B.: «Ascolto musica sempre, ovunque e comunque. Sul divano, in auto, mentre corro, in bici sull’autobus, mentre lavoro. Va bene tutto: vinili e cd (che continuo a comprare in quantità notevoli), ma anche streaming, download, promo. Non faccio differenze, e dei modi “veri” e “giusti” di ascoltare musica non me ne è mai fregato niente».
E.C.: «Non utilizzo nessun tipo di streaming, ascolto musica seriamente su un impianto come si deve. Purtroppo con gli anni si è perso il gusto dell’ascolto. In un mondo ideale la musica si dovrebbe ascoltare dal vivo, in quello reale la riproduzione dovrebbe essere a quel livello. Con gli mp3 e i telefonini, invece, è cambiato anche il modo di registrare musica, con un crollo drammatico a livello di qualità. Gli ultimi dischi dei Pearl Jam, per esempio, oltre che pessimi artisticamente sono inascoltabili come suono, con i volumi tirati al massimo per il formato compresso. Stessa cosa con gli ultimi Springsteen».
Quanti dischi avete a casa, ma soprattutto, in che modo sono catalogati?
C.B.: «Un po’ di migliaia, ma ho smesso di contarli dopo l’ultimo trasloco. Sono ordinati in un banalissimo ordine alfabetico».
E.C.: «Avendo appena fatto un trasloco, sulla base della grandezza di alcune librerie, ho calcolato che riuscirei a riempire un campo da calcio (Cilìa è anche noto juventino, mentre Bordone è un tifoso sfegatato del Torino, ndr) da una porta all’altra, sistemandoli fino all’altezza della traversa (ride, ndr). I vinili saranno invece circa 4mila… Tutti sono divisi per stili musicali, ere cronologiche e aree geografiche».

Esiste un’epoca migliore di un’altra musicalmente parlando? Che tipo di periodo è quello che stiamo vivendo? Sono usciti dischi recentemente che “resteranno” anche tra 50 anni?
C.B.: «Se si ama la musica, non c’è un’epoca migliore di un’altra. Dischi belli ne escono sempre. Ovviamente, se ci si limita alla musica pop e rock, come ogni forma d’arte e di espressione ha un suo arco fisiologico di sviluppo, legato a troppi fattori diversi. In questo senso, è persino banale dire che gli anni Sessanta e quelli a cavallo tra Settanta e Ottanta siano state le epoche più fertili e innovative in assoluto. Ma pur essendo un grande appassionato di quei periodi trovo un po’ triste limitarsi al culto del passato, e credo sia un dovere ascoltare – e quando lo merita, celebrare – quello che esce oggi. Dal punto di vista quantitativo e qualitativo “medio” è un buon momento, ogni anno vengono pubblicati tanti dischi interessanti che purtroppo hanno una tenuta nella mente degli ascoltatori infinitamente inferiore ai dischi che uscivano cinquanta, quaranta, trenta o anche solo vent’anni fa. Siamo tutti in attesa della prossima rivoluzione, che è un po’ come dire in attesa di Godot. Però io ci spero ancora. Su quali dischi resteranno pietre miliari tra 50 anni, te lo potrò dire fra 50 anni. Con una seduta spiritica, temo».
E.C.: «La risposta è fin troppo ovvia: nella seconda metà degli anni sessanta si è creato moltissimo di quanto si è poi ascoltato in seguito. E a cavallo fra il 1965 e il ‘79-’80 è stato inventato quasi tutto di ciò che ascoltiamo oggi. Gli anni 2000 si caratterizzano per la “retromania”, per citare il titolo di un eccellente libro di Simon Reynolds, ma forse perché è aumentata la massa, i dischi belli sono ancora tanti. Per assurdo siamo di fronte a una parcellizzazione del mercato che ha fatto bene alla musica, gli artisti non hanno più la pretesa di diventare tutti ricchi e famosi e fanno il disco che vogliono, in maniera più libera. E senza allungare troppo i contenuti, come all’epoca dei vinili, oggi tornati prepotentemente di moda. Poi se mi chiedi se fra 50 anni li ascolteremo ancora, rispondo di sì, perché sono bei dischi, ma non so se avranno fatto la storia».

Lasciamo perdere per un momento l’obiettività da critico e lasciate parlare il fan che è in voi:
I vostri cinque dischi da isola deserta?
C.B.: «Forever Changes dei Love, N.1 Record dei Big Star, Dusty in Memphis di Dusty Springfield, Astral Weeks di Van Morrison e Pet Sounds dei Beach Boys».
E.C.: «Forever Changes dei Love, London Calling dei Clash, il primo dei Velvet Underground, Marquee Moon dei Television e un disco quasi a caso dei migliori black, tra Otis blue di Otis Redding, What’s Going on di Marvin Gaye, There’s a Riot Goin’ On degli Sly and The Family Stone oppure Hot buttered soul di Isaac Hayes…».
I vostri cinque gruppi preferiti?
C.B.: «Beatles, Byrds, Rem, Husker Du e Fairport Convention».
E.C.: «Non avrei cominciato a scrivere senza i Clash e i Velvet Underground di Lou Reed. Altri due gruppi della mia vita sono i Rem e i Television, mentre aggiungerei i Pink Floyd dei primi album, che erano enormi».
I vostri cinque solisti preferiti?
C.B.: «Bob Dylan, Laura Nyro, Elliott Smith, Beth Orton, Neil Young».
E.C.: «Bob Dylan, Lou Reed, Bruce Springsteen, Neil Young, su cui ho appena completato un libro, un altro nero a caso di cui sopra, il Van Morrison di Astral weeks, Robert Wyatt, Jimi Hendrix, troppi».
Il gruppo o il disco che conoscete solo voi – si fa per dire – e che vorreste fosse nelle case di tutti gli appassionati di musica?
C.B.: «Non lo conosco solo io, per fortuna, ma direi Bevis Frond (la cui discografia occuperebbe mezza abitazione di qualunque appassionato di musica)».
E.C.: «I dischi di culto sono centinaia e spesso il culto con gli anni svanisce. Penso personalmente a Nick Drake per esempio, che era uno dei miei culti e ora è finito in uno spot pubblicitario, o a quando ho comprato Forever changes dei Love, che era per pochi iniziati e ora è una pietra miliare per molti…».

Tornate a fare i critici: il disco più bello ascoltato quest’anno? E il più sorprendente?
C.B.: «Di più belli te ne dico tre: Courtney Barnett, Father John Misty, Kamasi Washington. Il più sorprendente quello di Toro Y Moi».
E.C.: «Il nuovo di Kendrick Lamar è bello e lui una sorpresa visto che, per tornare a una domanda di poco fa, è uno dei pochi giovani che forse sta scrivendo la storia della musica anche in questi anni Duemila».
I dischi più brutti che vi sia mai capitato di ascoltare?
C.B.: «Li ho rimossi»
E.C.: « Quando stronco mi diverto, è come la vendetta per avermi fatto perdere tempo prezioso. Cito solo un gruppo, non un disco, nonostante la galleria degli orrori sia lunga: i Mars Volta, che riescono a riassumere molto del peggio del rock di alcuni decenni, in un certo senso sono geniali…».

Parliamo della scena italiana, spesso molto intrecciata con la critica: è più difficile stroncare gruppi e artisti che, magari, si conoscono anche personalmente?
C.B.: «Non ho mai scritto molto di musica italiana, e non invidio chi lo fa. Esattamente per quello che dici nella domanda».
E.C.: «A inizio carriera feci la scelta di non scrivere di musica italiana, un pochino anche per i motivi della tua domanda. I Mars Volta non vengono a rompermi le scatole, gli italiani forse sì. E così preferisco non parlarne neppure bene, come per esempio mi sarebbe piaciuto fare, dico il primo gruppo che ho adorato che mi viene in mente, con i Massimo Volume».
Avete la possibilità qui di fare pubblicità a tre gruppi tre emergenti (o anche no) italiani che credete ne abbiano bisogno e se lo meritino.
C.B.: «Paolo Spaccamonti, Moro & the Silent Revolution, Davide Tosches».
E.C.: «Me ne vengono in mente due: Paolo Spaccamonti e Moro & the Silent Revolution (gli stessi di Bordone, nonostante le due interviste siano state fatte in separata sede e in momenti diversi, ndr)».

Infine: che rapporto avete con internet? Al Mei venite premiati per i vostri blog ma siete firme soprattutto di cartacei, come convinvono le due cose?
C.B.: «In realtà ultimamente scrivo più su internet che su carta. I due mezzi si possono integrare benissimo, anche se il web è una fossa dei leoni se lo si affronta con l’approccio sbagliato. È facile cadere nella tentazione di fare i fenomeni e di essere provocatori. Il feedback immediato induce a calcare i toni, ma anche alla superficialità. Tutto ciò è squalificante, dal punto di vista professionale, oltre che faticosissimo da gestire e in definitiva una gran perdita di tempo ed energie. Credo che su internet si debba essere professionali e rigorosi esattamente come sui cartacei.cartacei.
E.C.: «Devo solo ringraziare internet per la velocità con cui si possono reperire informazioni e per come mi ha facilitato il lavoro: ricordo ancora bene i primi anni in cui scrivevo a mano, facendo talmente tante correzioni che poi dovevo ricopiare l’articolo e poi batterlo a macchina con carta carbone e mandare l’originale per posta. In generale credo comunque che internet abbia completato il quadro, lasciando alla carta stampata, che certo ha accusato il colpo in termini di copie vendute, la possibilità di specializzarsi e approfondire, così che ognuno possa scegliere».

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