Una vita da gourmet: «Quello che posso permettermi lo spendo per vino e ristoranti»

La parola a un critico gastronomico e sommelier: «In Romagna ci vorrebbe un Amerigo. Ecco i miei piatti e locali della vita»

Ravagnan

Ravagnan con Moreno Cedroni, chef de La Madonnina del
Pescatore, due Stelle Michelin a Marotta di Senigallia

Da bambino non mangiava, oggi fa il critico gastronomico. «Da piccolo mi stavo ammalando, mi hanno salvato i quadrucci in brodo della Gnaffa, trattoria a Sala di Cesenatico, dove mio padre, a cui devo tutta la mia crescita culturale in questo campo, mi portava ogni giorno. Oggi invece posso solo dire che tutti i soldi che posso permettermi li spendo in ristoranti e degustazioni di vino».

Esperienze che sono diventate curriculum per Raffaello Ravagnan, cervese, noto ai frequentatori di locali della zona probabilmente per le sue accurate recensioni sul gruppo Facebook da ventimila iscritti “MRD – Mangiare Ravenna e dintorni”.

Dal prossimo anno, se tutto andrà a buon fine, inizierà a fare l’ispettore per una guida gastronomica. «Tra le più importanti, forse la più importante in Italia», ci dice al tavolo di un bar.

«Ho iniziato scrivendo recensioni sul forum di Baltazar – racconta –, dove mi ha notato Alberto Cauzzi, tra i più grandi critici italiani, che mi ha portato a scrivere su Passione Gourmet, che considero il sito più importante d’Italia nel settore. L’enogastronomia è diventata il mio lavoro quasi per caso, dopo i 40 anni, prima in una piadineria, poi perfino da sommelier in un ristorante come il Tracina di Cesenatico. Il fatto che me lo abbia chiesto uno chef cresciuto in cucine stellate, alla mia età, senza esperienza, è stato come un miracolo».

WhatsApp Image 2021 11 24 At 12.27.55Cosa cerchi in un ristorante?
«Sostanzialmente l’emozione. E l’emozione è nel piatto. Ma chi sostiene che la cucina conta al 50 percento e la sala per l’altro 50 non ha tutti i torti. In fondo non si va al ristorante per fame, ma per vivere un’esperienza a tutto tondo. Ed è bello mangiare in posti che ti fanno sentire bene».

Com’è il mestiere del critico?
«L’unico in cui devi pagare tu (ride, ndr). Non fai altro che dire agli altri cosa non va. Ma credo sia un modo per far crescere il movimento: non serve a nulla sentirsi dire sempre e solo che è tutto buono. La critica invece ti dà l’imbeccata per capire come migliorarti».

Perché Ravenna non ha ristoranti stellati?
«È un po’ una caratteristica della città romagnola, non ne hanno neppure Forlì e Cesena».

Ma Ravenna è l’unica provincia senza, in regione.
«Questo è un caso sicuramente più peculiare e i più maliziosi potrebbero dire che la colpa è anche dei ravennati…».

Quali sono però i locali per cui vale la pena fare un viaggio, in provincia?
«Nel cervese almeno tre: la cruderia Al Porto su tutti, poi le Ghiaine e Camì, che io considero cervese (è a Savio di Ravenna, ndr). A Ravenna, invece, più che altro ci sono tante pizzerie (sorride, ndr). Se voglio andare al ristorante preferisco girare verso Rimini, in direzione opposta. A parte Borroni e l’Alexander di cui mi hanno sempre parlato bene, ma che non ho ancora avuto modo di provare, nel Ravennate c’è però una grande eccezione: Irvin Zannoni. Posso dire di averlo quasi scoperto: lo incontrai anni fa che lavorava in una pizzeria di Cesenatico e avevo notato che ci sapeva fare, ma non immaginavo così tanto. L’ultima cena che ho avuto modo di provare (al Boca Barranca di Marina Romea, ndr) è da stella piena. E poi, in provincia, c’è il Faentino, dove cambia tutto. È una fucina di tante realtà, a partire da ‘O Fiore Mio, fino a Remo Camurani (di Ca’ Murani, ndr), protagonista di una cucina di tradizione, che è la più difficile da fare. Di “vere” trattorie ne conto sulle dita di una sola mano e tra queste sempre a Faenza c’è anche Manueli».

Quali sono i parametri da rispettare quindi per una “vera” trattoria?
«La ricerca della materie prime e l’attenersi alle tipicità delle ricette. L’ultima mia scoperta è l’osteria Al Bel Fico di Pennabilli. Quella ideale invece è in provincia di Bologna: Amerigo. Parliamo di un signore che per fare il gelato quasi quotidianamente scende alla stalla a prendere il latte di vacca bianca modenese e lo manteca in una macchinetta non professionale di 30 anni fa. Ci vorrebbe un Amerigo in Romagna…».

Qui l’istituzione è invece la Casa delle Aie…
«Ci siamo passati tutti, è un pezzo di cuore di ogni cervese e non solo. A fronte di un numero così elevato di coperti è però difficile fare qualità e quindi complicato rispettare i “miei” parametri. Ma la Casa delle Aie non deve piacere a me, deve piacere alla gente. E piace tanto. I ragazzi che la gestiscono sono bravissimi, oltre che attenti al sociale».

A proposito di tradizioni: parliamo di cappelletto…
«Dico solo che non va al ragù, “muore” in brodo. I miei preferiti in zona erano tre: Spiedomania a Ravenna non c’è più; Parini non cucina più al ristorante. Rimane quello dell’Onda Blu di San Mauro Mare, condito con delicate e sopraffine materie dell’Adriatico».

E la tagliatella al ragù?
«È nata pure una confraternita, da queste parti, per stabilire la migliore. Ognuno ha la sua, dalla zona di Santarcangelo, con Zaghini e Renzi, in giù. Io ne dico due: quella delle Ghiaine e quella di Goffredo, alla gastronomia Cervia Carni, dove è consigliabile il tagliolino però, perché sono un po’ troppo larghe».

Il piatto della vita?
«Quello di una serata magica: il rognone con spugnole accompagnato dal barolo 2004 del cavalier Accomasso, al Povero Diavolo di Piergiorgio Parini. Ma anche il baccalà o le “parti nobili” del maiale di Paco Morales, in Spagna: ricordo ancora l’appiccicume sulle labbra…».

I ristoranti della vita, invece?
«In ordine sparso, gli stessi Povero Diavolo, epoca Parini, e in Spagna i locali di Morales e Quique Dacosta, così come in Belgio ho un gran ricordo di In De Wulf. Per tornare in Italia sicuramente ci metto Amerigo, Uliassi e poi il Canto, a Siena, per citare l’insalata di Paolo Lopriore».

Quanto è arrivato a spendere per una cena?
«Al Noma (locale di culto di Copenaghen, ndr) non ricordo perché pagai in corone, ma da Teverini, un paio di volte, con un vino importante, ho passato i 400. Probabilmente mi è capitato anche di arrivare verso i 500, ma sono sempre soldi spesi benissimo».

E le porzioni piccole, come contestano molti alle grandi cucine?
«Quello delle porzioni è un limite culturale soprattutto romagnolo. Posso assicurare che io e tanti altri appassionati come me non siamo mai usciti dal ristorante con la fame, Anzi…».

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