Quel “lavoro“ che spetta al lettore secondo Piero Dorfles

Dorfles Lavoro Del Lettore24 simboli appena, messi in un certo ordine, disposti per linee. Pare poco però possono dare vita a spettacoli mentali senza pari. Lo diceva Kurt Vonnegut, e aveva dannatamente ragione. Il critico letterario Piero Dorfles è tornato in libreria con un saggio sulla lettura dal titolo Il lavoro del lettore, perché leggere ti cambia la vita (Bompiani) (ne ho parlato con lui recentemente alla Classense alla rassegna “Il Tempo Ritrovato”). La lettura è una azione attiva in cui la fantasia del lettore deve dare un volto ai personaggi, deve erigere mura e città, deve sentire la voce di Madame Bovary, il freddo delle strade di San Pietroburgo, o il sole della California.

Il libri non portano certezza, ma dubbi. Non felicità, ma conoscenza. Non un senso, ma allontanano il rischio di perderci nel nulla e di cercare la vita. Ci permettono di chiederci: perché siamo oggi qui. Ogni lettore crea un suo mondo. Dorfles prende in giro chi dice «non ho tempo per leggere». «Chi dice che non ha tempo per leggere non sa leggere». In che senso? Non sa concentrarsi sul lavoro della lettura, che è come un muscolo che va allenato.

Dorfles sceglie di attraversare la storia della letteratura attraversando alcuni archetipi, ovvero alcune figure ricorrenti, che hanno a che fare con l’animo umano. Una è l’isola, simbolo della solitudine, ma anche di una società circoscritta. Da un’isola – Itaca – nasce la letteratura, il viaggio di Ulisse che parte e torna nella sua isola. Ma anche molte altre, la micro società de Il signore delle mosche, in cui i bambini si scoprono piccoli uomini, cinici e violenti, quella di Robinson Crusoe, che utilizza il proprio ingegno e la propria fede per ricreare una Inghilterra in miniatura, fino al romanzo fantascientifico L’isola del dottor Moreau di H.G. Wells.

Un’altra categoria è la montagna. Emerge che nella letteratura tra ‘700 e ‘800 le vette non erano molto amate dai pensatori. Hegel scrive pagine terribili sulle montagne, in cui sottolinea come non ci sia nulla di straordinario in questi luoghi se non il fatto che rimarchino l’arrendevolezza dell’uomo davanti alla potenza della natura. Anche François-René de Chateaubriand non pare molto entusiasta quando scrive: «ci sono solo due tipi di montagne: quelle con le nuvole e quelle senza nuvole» e le descrive come «pesanti masse senza armonia» e in contrasto con i limiti del corpo umano. Per scoprire il fascino della montagna dobbiamo aspettare il novecento e viaggiatori come Patrick Fermor che ci insegna a «non bere l’acqua da un impronta di orso» (cosa che immagino vi sarebbe venuta subito in mente) e René Daumal, «la montagna è il legame tra terra e cielo, è la via per la quale l’uomo può elevarsi alla divinità e la divinità rivelarsi all’uomo». Insomma anche la sensibilità alla natura è un percorso lungo, che parte da lontano, e che è stata molto aiutata dalla circolazione di libri di viaggiatori e filosofi come Fermor, Dumal, ma anche Thoreau e Walser.

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