Purity: è pur sempre Franzen, ma…

Per chi ha amato sopra ogni altro romanzo o quasi Le correzioni, per chi ha ancora impressi nella memoria i protagonisti dell’imperfetto ma comunque memorabile Liber­tà, la lettura di Purity, terzo romanzo di Jonathan Franzen (Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi) è un atto dovuto. Nei mesi dall’uscita negli Usa (a settembre 2015) fino al 2016 in cui è arrivato in Italia è stato osannato e stroncato. Ora, che Franzen sia un gigante della narrazione pare assodato. La sua capacità di intrecciare fili, creare personaggi, muoverli secondo schemi complessi e sorprendenti senza permettere mai alla trama di prevalere sull’indagine psicologica, la sua capacità di scrivere toccando ogni  grande tema tragico (non sarà un caso che per tutto il libro torna Shakespeare) in questo caso la purezza, la trasparenza, il Proponimento, ossia la fedeltà ai propri principi morali, che diventa impossibile o accecante o patologica o una strada verso l’autodistruzione. È un romanzo estremo, estreme sono le storie che vi sono narrate estreme le psicosi, i rapporti all’interno delle famiglie, le patologie psichiatriche, la sessualità, l’amore, l’ossessione. Estremi sono i personaggi nelle loro azioni e nelle loro scelte o almeno molti di loro. Estrema è la trama che vede un intreccio che riscrive il feuilleton del figlio “ritrovato” ambientandolo a cavallo tra due millenni, due epoche storiche, due fasi dello sviluppo tecnologico, due continenti. La vecchia Europa della Berlino dell’Est e della Stasi e il mondo odierno di Wikileaks in stretta connessione per raccontare anche della ricerca della verità e di cosa sia, naturalmente, la verità (tra i protagonisti ci sono di fatto tre giornalisti e una sorta di Assange che fa trapelare informazioni). Eppure. Eppure questo libro non è Le Cor­rezioni e nemmeno Libertà. Non ha quella capacità di mettere a fuoco, attraverso dialoghi e punti di vista articolati all’interno del libro, il cono d’ombra che fa parte di quest’epoca e appartiene al vissuto di chiunque. La penna è magistrale, ma la ricerca del limite a tratti talmente forzata da risultare noioso, alcuni (non tutti) personaggi talmente costruiti attorno a un asse morale portante da risultare non solo e non tanto insopportabili, ma inutili. Detto questo, è pur sempre Franzen, ne vale sempre la pena.

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