Un libro per ridare corpo (e anima) alla parola partigiano

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Partigiani a tavola di Lorena Carrara ed Elisabetta Salvini

Più passa il tempo e più può diventare complicato dare forma e sostanza a quella che fu l’esperienza della Resistenza antifascista in Italia, il rischio di un 25 aprile un po’ di facciata è sempre dietro l’angolo. Ecco (anche) perché vale forse la pena soffermarsi su un libro come Partigiani a tavola  (Fausto Lupetti editore) di due giovani ricercatrici, Lorena Carrara ed Elisabetta Salvini, che saranno in città a Ravenna proprio il 25 aprile in occasione del pranzo “resistente” alla sala Strocchi organizzato da Sinistra per Ravenna (info e prenotazioni 339-5322565 ). Il menù è ispirato alle ricette che completano il volume e che sono a loro volta tratte da ciò che  i partigiani mangiavano, per scelta o necessità, nelle occasioni da celebrare e nel quotidiano, perennemente alle prese con scarsità di ingredienti e la necessità di soluzioni ingegnose nelle preparazioni.

Ma il volume contiene in realtà molto di più, e cioé una corposa sezione che ricostruisce il ruolo del cibo in quegli anni tra le file dei partigiani (la dichiarazione delle autrici è chiara dall’introduzione: “Questo è un libro di parte, le ragioni dei ragazzi di Salò, qui, non saranno considerate”). Non quindi un semplice libro di storia dell’alimentazione, ma qualcosa che intreccia il cibo nei suoi significati simbolici a una parte e un pezzo di storia d’Italia che ha cambiato la società più di quanto forse a volte siamo in grado di riconoscere anche attraverso l’aspetto legato ai pasti.

E scopriamo così che, per una curiosa eterogenesi dei fini, a salvare i partigiani fu anche l’autarchia imposta dal fascismo che aveva costretto le famiglie, anzi le donne, ad abituarsi a una graduale mancanza di ingrendienti e quindi ad arrangiarsi sempre più alla ricerca di soluzioni alternative e creative. Nel libro si trovano aneddoti, come una finta malattia delle vacche per poter produrre indisturbati burro da mandare sulle montagne ai combattenti, o i 380 chili di pasta offerti dai fratelli Cervi in piazza alla popolazione per celebrare la caduta del regime, ma leggendo sembra anche di sentire il sapore del cavolo mentre si sognano pagnotte fresche di forno e di assaggiare il pane che diventa sempre più nero e più duro e indigesto. Capiamo perché sedersi in cerchio per mangiare singifica mettersi tutti alla pari, alla stessa distanza dal centro, senza gerarchie e diventare così davvero compagni, parola che non a caso viene dal latino “cum panis”, ossia qualcuno con cui si condivide il desco.

È un testo che attinge a testimonianze e alla grande letteratura che ha raccontato la Resistenza. Fondamentale è come emerge il ruolo delle donne, capaci di gestire e organizzare la cucina spogliandosi tuttavia del ruolo a cui le voleva costrette il fascismo, capaci di prendersi cura anche dei bambini, che subivano la guerra e che saranno nutriti a migliaia dalle donne emiliane dell’Udi in una vicenda che ha insieme qualcosa di “ordinario” e di epico. Un libro di storia dell’alimentazione e storia delle donne e storia dell’Italia che ha uno sguardo in qualche modo nuovo e insieme antico, che si legge senza bisogno di conoscenze specifiche per poterlo apprezzare appieno e che anzi serve a dare corpo, oltreché anima, a quella parola che rischia sempre più di rarefarsi e farsi sfuggente tra nuove e vecchie polemiche e riti un po’ stantii: la parola “partigiano”.

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