Paul, immigrato (da Parigi) per amore

«L’impatto culturale è stato complesso. La differenza linguistica è uno scoglio enorme da sormontare. Non riuscire a comunicare ti fa sentire come dentro una bolla»

Storie Meticce

Paul Gerard Jean-Fernand Didier François Bompart con la sua famiglia (foto Marco Parollo)

di Matteo Cavezzali

Per entrare in casa ci si toglie le scarpe. Le si lascia fuori dal portone, in fondo alle scale. Ancora non siamo entrati e già si marca una piccola differenza di tradizione. La burocrazia europea ha scisso i migranti per bande. Ci sono i migranti economici, i perseguitati politici, i richiedenti asilo, gli esuli. In nessuna carta però si parla di migranti per amore. Eppure Paul è venuto in Italia per Chiara, e per crescere i loro figli in una città meno caotica di quella in cui si erano conosciuti: Parigi.

Paul è un diminutivo, il suo nome per intero è Paul Gerard Jean-Fernand Didier François Bompart. «I vostri nomi così corti mi suonano un po’ ridicoli», confessa. Paul non ha avuto problemi di permessi di soggiorno o visti, perché è cittadino francese, eppure l’impatto culturale è stato complesso.
«La differenza linguistica è uno scoglio enorme da sormontare. Non capire le persone che parlano e non riuscire a comunicare con loro ti fa sentire come dentro a una bolla. Dovevo chiedere “per favore potete parlarmi in inglese”, oppure “può parlare lentamente”.
Ora parlo bene italiano, ma ho ancora un modo di pensare francese. Mi pareva che gli italiani fossero molto scortesi perché non chiedevano mai per favore, invece poi ho capito che è normale».

Interviene Chiara: «Se a cena gli chiedevo di passarmi il sale, voleva che dicessi ogni volta: “scusa, potresti gentilmente passarmi del sale, per favore?” ».
«Beh, “passami il sale” sembra aggressivo? No?».
«No, si deve ancora abituare».
«E poi i modi di dire… Secondo me fanno finta di non capirli. Per esempio se dico “oggi ho la testa nel culo” si capisce cosa intendo, no?».
«No».
«Per niente?».
«Affatto».
«Beh, è un modo di dire francese che significa quando ti senti intontito, mezzo addormentato. Pensavo che si capisse… Non ho ancora sviluppato una personalità italiana. Anche le battute non riesco a farle in italiano».
«È vero, è molto simpatico in francese, mentre in italiano è noiosissimo».

Il primo figlio, Arturo, è nato a Parigi e ha cinque anni, il secondo invece, Benjamin, ne ha tre ed è nato a Ravenna. Il maggiore parla bene sia francese che italiano, mentre il piccolo per ora parla solo francese.
«Io e Chiara tra noi parlamo francese, perché ci siamo “conosciuti in francese”, quindi a casa lui sente solo francese, quando andrà a scuola imparerà anche l’italiano».

Tra le differenze culturali che hanno reso difficile l’inserimento o cose che gli sono apparse strane di Ravenna, Paul cita le seguenti: «Un problema è stato che non mi piace la pasta, e qui è tutta pasta. Io sono cresciuto in Occitania e per me esistono solo formaggi e ostriche, cose che qui faccio fatica a trovare. Un’altra cosa che mi è parsa strana è che le donne da dietro sembrano tutte giovani e belle, poi si girano e magari hanno settanta anni. Però di schiena sembrano delle trentenni: capelli curati, vestiti alla moda. Per me è una cosa molto strana. Un’altra cosa è che le persone non hanno pazienza di capire chi non parla italiano. Se fai la spesa o sei in un ufficio per chiedere informazioni non vogliono perdere tempo, e diventano sbrigativi».

La strada dell’integrazione è lunga e accidentata, anche per chi condivide uno stile di vita europeo, «ora ho trovato un ristorante che fa ottime ostriche nel Borgo San Rocco, dopo un po’ ho scoperto i segreti della città!».

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