Il cibo come cura dell’altro. E la Cina sembra già più vicina…

I coniugi Ye, ristoratori, vivono a Ravenna da quindici anni: «Da pensionati vorremmo tornare a vivere là»

Cinesi Storie Meticce

I coniugi Ye con i loro gemellini

di Matteo Cavezzali

Il saggio cinese Meng-tzu – conosciuto in occidente come Mencio – nel 300 a.C. scriveva che «un grande uomo si riconosce guardando a cosa dà importanza. Se dà importanza al cibo è un grande uomo».

Dopo due ore che parlo con i coniugi Ye mi convinco che siano più le cose che italiani e cinesi hanno in comune di quelle che li separano. In primis parliamo tanto di cibo.
Cosa fate la domenica, quando non avete niente da fare? Chiedo, risponde Quian, la moglie: «Cuciniamo». «Ma come? Avete un ristorante e nei giorni di festa cucinate?». «Cuciniamo cose diverse. Che modo migliore c’è di festeggiare che mangiare tutti assieme in famiglia?».
Nella filosofia di Mencio il cibo è il simbolo del prendersi cura dell’altro. «La tartaruga sacra vive di aria, non ha bisogno di nessuno. L’essere umano invece ha bisogno di qualcun altro perché da solo non può provvedere al suo sostentamento».

Zhou Qian e suo marito Ye Zhije sono i gestori e proprietari del primo e più longevo ristorante di sushi a Ravenna, il Fuji, aperto 13 anni fa, e da tre anni trasferitosi dal centro città in via Trieste con una seconda sede in viale Po. A parlare inizialmente è soprattutto la moglie. «Nelle famiglie cinesi comandano le donne», dice il marito. Anche questa mi ricorda qualcosa.

«Non è strano per un cinese cucinare piatti della cucina tradizionale giapponese?». Risponde il marito: «Mio padre fondò il ristorante dopo un viaggio in Giappone, capendo che presto il cibo giapponese sarebbe diventato di moda. Una cosa che pochi sanno però è che il sushi in realtà nacque in Cina».
Verifico la notizia e trovo in effetti diverse testimonianze del fatto che la tradizione cinese faceva mettere il pesce crudo in strati di riso per mantenerlo più a lungo grazie all’amido fin dal II secolo, e solo in un secondo momento questa usanza è stata ripresa dai giapponesi. Il signor Ye ha quindi ragione.
«C’è inoltre da dire che la cucina asiatica che si fa in Europa ha poco a che vedere con quella originale. In Cina non esiste nessun piatto che assomigli nemmeno vagamente agli involtini primavera, al riso alla cantonese o al pollo con le mandorle. Io non li avevo mai sentiti nominare prima di arrivare in Italia».
Ma nei giorni di festa cosa mangiate? «Cucina il nonno, facciamo tante cose diverse. Per esempio il Maibing, la pizza cinese, ripiena di carne e verdure essiccate».

Qian vive in Italia da quindici anni: «La metà della mia vita l’ho trascorsa in Italia. I primi anni furono molto difficili, imparare l’italiano era complicatissimo, non riuscivo a comunicare con gli altri. A scuola mi prendevano in giro, mi chiamavano “la cinesina”, io tornavo a casa e piangevo. Ma ho saputo resistere. Ho imparato a ignorare chi mi prende in giro per le mie origini. Ricordo la soddisfazione quando in classe alzai la mano e dissi la mia prima frase in italiano. Il professore rimase di sasso». Che frase era? Le chiedo. «”posso andare in bagno?”» ride. «Me l’aveva insegnata la mia vicina di banco, una ragazza filippina».

Oggi il ristorante Fuji ha 15 dipendenti: «All’inizio erano tutti cinesi, ma il cinese di indole appena può costruisce una sua piccola attività. Infatti molti dei nostri dipendenti hanno poi aperto in proprio, appena hanno potuto. Oggi abbiamo un po’ di cinesi e un po’ di pachistani». Italiani nessuno? «Difficile che si propongano, non so perché. Forse agli italiani non piace l’idea di lavorare per degli stranieri?» mi chiede. Non rispondo.

I coniugi Ye hanno due bambini si chiamano Chen Yu Erik e Wan Ging Olivia.
«Gli abbiamo dato due nomi, uno cinese e uno che suonasse bene per gli europei. In Cina è considerato poco rispettoso usare nomi che suonino simili a quelli di parenti e antenati, anche molto lontani, quindi bisogna scegliere attentamente. I nomi cinesi hanno significati importanti: il grande si chiama Chen Yu che significa re della libertà, la piccola Wan Ging: bella e brava, ispirato a un celebre personaggio del romanzo dello scrittore Jin Young, famosissimo in Cina, non tradotto in Italia. Scrive storie di Kung Fu, che non è un modo di picchiarsi, come pensano alcuni occidentali, ma è una filosofia di vita».

Gli chiedo se legga anche l’I Ching e il filosofo Mencio: «No, è roba che era popolare una volta, oggi nessuno conosce queste cose, come la religione, ai giovani non interessa». La famiglia Ye è di tradizione jidujiao, ovvero cristiana, «ma oggi è difficile che ai giovani interessi la religione, noi siamo atei. Forse agli italiani capita di più di parlare di Gesù, credo». Ho i miei dubbi.

Quali sono i luoghi comuni sui cinesi che ti hanno stupito di più?
«Che per lavorare non mangiano e non dormono. Diciamo che non abbiamo paura di lavorare due o tre ore in più, se c’è bisogno. Ma dormiamo e ti assicuro che mangiamo parecchio. L’altro, molto divertente, è che “i cinesi non muoiono”, il fatto è che quando diventiamo vecchi ci piace tornare in Cina. Anche noi quando andremo in pensione vogliamo tornare a trascorrere la vecchiaia in Cina, anche se è molto cambiata da quando siamo partiti».
«È quasi irriconoscibile – aggiunge il marito – i palazzi sono tutti nuovi e non si usano più i soldi di carta e nemmeno le carte di credito, si paga solo con i cellulari. Però abbiamo comunque nostalgia di casa». «Stiamo pensando di mandare i nostri figli a studiare in Cina. Lì la scuola è molto più avanti, fin dalle elementari ti tengono sotto con lo studio, qui le elementari sono ancora trattati come bambini e fanno disegni mentre in Cina fanno matematica a livelli altissimi».

Quando gli chiedo se c’è ancora, dopo tanti anni, qualcosa che gli appare strano degli italiani torniamo a parlare di cibo: «Che non vi piacciono le zampe di gallina. Sono una delle cose più buone del mondo, gli italiani non possono nemmeno pensarci. Non sapete cosa vi perdete! La parte più buona della carne è vicino alle ossa. E non capisco perché facciate le cotolette senza l’osso».
La cucina italiana vi piace? «Molto. Il mio piatto preferito sono gli spaghetti allo scoglio».

Mi congedo dai coniugi Ye ed esco nella calura estiva. Ripenso al povero Mencio, dimenticato da tutti, e mi chiedo se un giorno avrò mai il coraggio di abbandonare gli involtini primavera per provare le zampe di gallina. È una bella metafora dell’idea che abbiamo degli altri, immaginarli involtini primavera e scoprirli zampe di gallina. E come diceva Mencio: «osservando un lago non capirai mai cos’è il mare».
Ma chissà cosa aveva detto davvero.

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