Calcutta, l’odio preventivo e quel suo modo di scrivere canzoni

Calcutta EvergreenQuando si parla di Calcutta la parte interessante è ormai diventata quello che si dice di Calcutta. Come rapido riassunto per chi è tornato dalla luna basta ricordare che si tratta di un cantautore inizialmente sfigato e apprezzato dalla critica e con un discreto giro di culto ai tempi (nel 2012, quando era poco più che ventenne) del suo primo scalcinato ma piuttosto ispirato album di canzoni registrate male (o come si dice, lo-fi); cantautore sfigato che ora è finito tutto d’un tratto a suonare all’Arena di Verona o a presentare il nuovo album con una diretta dalla redazione di “Tv Sorrisi e Canzoni”, il tutto grazie al suo secondo disco registrato nel 2015 secondo canoni leggermente più radiofonici. Nel frattempo man mano che il suo successo aumentava, aumentavano ancor di più gli invidiosi.

Sembra la solita banalità all’italiana e invece è andata proprio così. Non si contano le parodie, le prese per il culo, le interviste di colleghi che indicano Calcutta e il cosiddetto “itpop” da lui sdoganato come il male della scena musicale italiana, o quelli che non ce l’hanno fatta che dicono “guarda questo scemo”. Li capisco anche un pochino, naturalmente, perché non è che siamo di fronte a Bob Dylan. Però sarebbe onesto anche chiedersi davvero come abbia fatto Calcutta a finire lì. E la verità è che sa scrivere testi in un modo al momento piuttosto unico in Italia, unendo toni confidenziali a temi universali raccontati senza pretese e con una genuina autoironia tramite racconti di vita più o meno biografici di uno sfigato cresciuto a Latina e dintorni. Con il miracolo che ti restano in testa e si fanno cantare quasi in automatico. Una volta c’era il “Frosinone in serie A”, c’era il “cosa mi manchi a fare” o il “Gaetano mi ha detto”, ora c’è il “Weee deficiente”, “il cuore a mille per il paracetamolo” o “tutte le strade mi portano alle tue mutande” e soprattutto attorno ci sono passaggi testuali (e a questo giro anche arrangiamenti) per nulla scontati e fuori dagli schemi della canzone d’autore. E, cosa non per nulla irrilevante, il suo nuovo Evergreen (titolo e copertina fantastici e molto canzonatori) è pure un bel disco, forse meglio del tanto chiacchierato Mainstream di tre anni fa, sulla cui scia proseguono i tre nuovi singoli. Ma poi nel nuovo album si parte con una ballata raffinata come “Briciole” e ne spicca un’altra (“Saliva”) del tutto spoglia (e già sentita, dicono, ai concerti e su Youtube) eppure intensa, per poi proseguire con un piccolo gioiellino come “Hubner” (sì, dedicata proprio a lui) e pure con un paio di pezzi sperimentali – mi si passi il termine – in cui sembra quasi un Battisti fuori controllo (“Rai”, una sorta di diario della sua prima apparizione sulla tv pubblica che se non fosse Calcutta oserei quasi definire geniale) o una “Nuda Nudissima” che è quasi una mini opera rock. Il complimento migliore è forse dire che alla fine se ne vorrebbe ancora (31 minuti dura, Evergreen), con buona pace dell’odio preventivo che ha scatenato solo l’annuncio. E va bene, certo non siamo di fronte a un capolavoro e certo Calcutta può non piacere e certo non è Calcutta che cambierà la storia della musica italiana, ma lui almeno (a differenza di molti colleghi che lo insultano) un pezzetto ne sta scrivendo. E chi non se ne rende conto è probabilmente in cattiva fede. O semplicemente non riesce proprio a farsene una ragione…

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