Dagli Avalanches al ritorno di Frank Ocean

Terminate le vacanze, sono a consigliarvi il disco ideale per la vostra estate, così colorato e pieno di cose che vi potrà dare una mano anche in autunno e in inverno. Se ne è parlato, ma non poi così tanto, forse perché è arrivato dopo qualcosa come 16 anni di silenzio dal meraviglioso debutto, quello degli australiani The Avalanches. Il nuovo si chiama Wildflower e dentro ci sono rap, trip-hop, funk, folk, rock psichedelico, frullati con i sample più disparati. Non un capolavoro, a causa forse dell’eccessiva lunghezza e di una certa discontinuità di fondo, ma uno dei dischi migliori di un’estate che mi ha messo addosso anche un po’ di tristezza per l’uscita del nuovo Dinosaur Jr. Che poteva uscire uguale uguale 20 anni fa – con quel suono, quelle chitarre, quelle distorsioni, quella voce. Non che sia brutto, solo un po’ troppo nostalgico, ecco. Per fortuna, proprio pochi giorni prima di scrivere queste righe, il 2016 – già pieno di uscite importanti, tanto da renderlo senza dubbio uno dei migliori anni del decennio – ha ulteriormente svoltato con l’uscita di Blonde (o Blond, come scritto sulla copertina). Atteso da almeno due anni, arriva a quattro di distanza il successore di uno dei capolavori indiscussi degli anni Duemila, Channel Orange: è tornato infatti Frank Ocean, al termine di un’operazione incredibile che non è semplice descrivere in poche righe tra annunci, smentite, un visual album di anteprima (che poi è un lungo video musicale) e poi la vendita del cd all’interno di una rivista in un packaging stile preservativo, andata esaurita in poche ore in America, il tutto condito dal solito delirio collettivo su Twitter. Ormai dobbiamo rassegnarci a qualcosa del genere ad ogni uscita importante (in fondo è pure divertente), forse come ultimo tentativo disperato di cercare di dare ancora rilevanza al formato dell’album, ma che spesso arriva a mettere in secondo piano il disco stesso. A volte non per forza è un male (penso all’ultimo, alla fine deludente, Kanye West), altre sì. Questa volta, ecco, ne è valsa la pena sorbirsi l’attesa, diciamolo subito. Un po’ come Kendrick Lamar l’anno scorso, Ocean doveva dimostrare di essere davvero uno dei più grandi artisti contemporanei dopo il promettente – per usare un eufemismo  – debutto. E seppure in maniera meno scoppiettante e immediata rispetto a Lamar, anche lui si conferma, spiazzando però chi si aspettava un altro discone (solo) di nu-soul-r&b con singoli straccia tutto. Qui più che riempire si è tolto e quando si è potuto si è cercato pure di sperimentare (restando pur sempre in ambito pop, sia chiaro), con arrangiamenti molto curati ma anche minimali, collaborazioni che vanno ben oltre il mondo black, rumori e ballate spettrali, tanta delicatezza e una voce come sempre originale. Un disco da ascoltare nei dettagli con attenzione, che rende Frank Ocean definitivamente un po’ diverso da tutti gli altri. Peccato solo per chi ancora nutre pregiudizi verso il cosiddetto mainstream, non sa cosa si perde…

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