Un 2012 di (più o meno) grandi ritorni

Mancano tre puntate di questa rubrica alla fine dell’anno ed è quindi il momento di cercare di fare un primo bilancio del 2012, cercando di districarsi tra le centinaia di uscite, che ho già cercato di selezionare nel tempo dopo averne letto su carta e web. Questa settimana (in attesa della vera top 20) parto con una serie di dischi che hanno un unico comune denominatore, ossia quello di essere attesi ritorni o comunque album di nomi storici del panorama musicale. Primo fra tutti mister Bob Dylan, naturalmente, che continua a produrre con una certa frequenza, arrivando l’ultimo Tempest a soli tre anni dal precedente. Ma parliamoci chiaro, chi sono io per raccontarvi un disco di Bob Dylan? Va bene, stesso discorso lo potrei fare per Bruce Springsteen (e infatti il suo nuovo disco non l’ho neppure ascoltato) o qualsiasi altro artista con la a maiuscola, ma suvvia, non me la sento proprio di giudicare il nuovo album di Bob Dylan. Qui mi limito a dire che mi sembra suoni credibile, ancora, nel 2012, e che è stato accolto piuttosto bene dalla critica. Non così è successo per John Cale e Bob Mould, per esempio, ma non deve essere facile essere ex, rispettivamente, di Velvet Underground e Husker Du (prometto di ascoltarli, però, i loro dischi, al momento non ce l’ho fatta). Preferisco invece parlare di uno scatenato Neil Young, per esempio, che ha pubblicato quest’anno addirittura due dischi che segnano il ritorno del grande canadese insieme alla sua storica band, i Crazy Horse. Due dischi molto deludenti, per il sottoscritto, che aveva invece amato alla follia il suo balzo in avanti tecnologico, se si può chiamare così, del 2010 con l’eccezionale Le Noise, cupo, intimo e ispiratissimo. Un abisso lo separa, appunto, dai due nuovi album, dalle cover di Americana e dalle estenuanti jam elettriche del doppio Psychedelic Pill, che pare quasi la classica rimpatriata tra amici che suonano però più per loro divertimento che per quello degli ascoltatori. Da un ritorno che era comunque nell’aria, vista la prolificità di Young, a uno del tutto inaspettato, quello dei Comus, leggendario collettivo inglese che può vantare nel suo curriculum solo un disco capolavoro come First Utterance (anno 1971) e un deludente seguito di  tre anni più tardi. Quasi quattro decenni dopo, quindi, ecco Out Of The Coma, e la magia del loro primo album ritorna quasi inalterata. Si parla  quindi di folk apocalittico, di suoni acustici e strumenti arcaici come flauto e oboe, di una voce inquietante e quattro lunghe canzoni che niente hanno da spartire con il resto del panorama musicale contemporaneo. Un gioiellino. In forma mi sono parsi anche i Dead Can Dance, che tornano con un disco di gran classe, quello della inevitabile maturità, che raccoglie un po’ tutte le varie fasi della loro carriera, passando dalla dark-wave all’etnico, dalle suggestioni elettroniche fino al pop d’autore. Bello. Altro ritorno inaspettato è quello degli americani Zz Top, sempre con la loro barba lunga un metro e che solo il nome fa tanto rock anni settanta. A dire la verità, non sono un esperto di Zz Top, lo ammetto, ma questo loro ritorno sotto l’egida di Rick Rubin, il celebre produttore dietro per esempio la nuova fantastica vita (artisticamente parlando) di Johnny Cash, mi incuriosiva. E infatti il loro La Futura è un disco dignitoso, che suona rock e blues in maniera diretta e con pochi fronzoli, tanto che potrebbe far avvicinare al genere anche ragazzini ignari di quanto successo decenni fa. Era molto atteso poi il ritorno di Mark Lanegan che ve lo dico, per fare sentire vecchi anche voi, ha ormai quasi 50 anni, Mark Lanegan. Non faceva un disco suo, di inediti, dal 2004 ed è uscito con questo Blues Funeral in cui addirittura fanno la loro comparsa drum machine e tastiere quasi eighties. Il risultato non è poi così pessimo, anche perché ormai credo che non ci si possa aspettare più tantissimo da Lanegan, a parte la sua voce meravigliosa. Sempre per quanto riguarda i ritorni, non si può tacere su quelli dei magnifici Godspeed You! Black Emperor – che non facevano un disco da dieci anni e che ripropongono più o meno il loro classico sound, quello post-rock che hanno fortemente contribuito a creare, tra musica rock, classica e avanguardia (niente di nuovo, ma sapere che ci sono ancora, fa stare bene) – e l’atteso secondo disco di Cody Chesnutt, dieci anni dopo The Headphone Masterpiece, uno dei debutti più folgoranti degli ultimi decenni. Ecco, è arrivato il seguito e qualcuno ve lo vuole spacciare per un grande disco di soul moderno. A me pare che Cody si sia semplicemente normalizzato e abbia fatto un disco soul pulito pulito dalle pretese commerciali. Che magari non è brutto, ma neanche può entusiasmare.

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