I June of 44 in Italia ed è subito post-rock

Slint 1 HpC’è stato una sorta di fremito nei giorni scorsi sul web in seguito all’inatteso annuncio di ben quattro  date italiane (di cui una, il 29 maggio, nella vicina Bologna) nell’ambito del tour europeo di una band che non pubblica un disco da qualcosa come 19 anni. Una band molto amata da chi cercava nella musica rock degli anni novanta qualcosa di alternativo a quello che già era rock alternativo.

Non stiamo parlando di un fenomeno di massa, me ne rendo conto, ma è stato comunque qualcosa di (apparentemente) nuovo nella storia della musica di quel periodo, un nuovo vero e proprio sottogenere che prese il nome di post-rock. Un’etichetta dalla storia decisamente travagliata, se consideriamo che è stata utilizzata inizialmente per definire le cose più disparate, senza particolare logica, per poi venire pian piano ripudiata, all’inizio degli anni duemila dagli stessi artisti, a cui forse in effetti non era mai piaciuta troppo. In realtà l’espressione ha resistito e anzi viene ancora utilizzata dagli addetti ai lavori qua e là, a tradimento, per far capire che si tratta di musica non proprio rock ma neppure semplicemente sperimentale.

Raccontata così, forse, sembra una piccola storia di poco conto. In realtà c’è gente che ci ha perso il sonno, in quegli anni, per colpa di Simon Reynolds (il critico più osannato al mondo che pare abbia inventato l’espressione post-rock, tra l’altro, per capire quanto il terreno sia minato, per descrivere gruppi che secondo poi l’interpretazione successiva della maggior parte dei giornalisti non sarebbero neppure da considerare davvero post-rock, come Stereolab o Bark Psychosis) e c’è una bella fetta di appassionati (di quelli che nel 1995 avevano tra i 20 e i 40-50 anni) che del post-rock si è innamorata perdutamente. E ognuno, come in amore, aveva il proprio ideale di post-rock, definibile in estrema sintesi come un genere che parte da strumentazioni e formule prettamente rock (chitarra, batteria, eccetera) per poi allontanarsene pian piano, vuoi per l’assenza della voce (i gruppi interamente strumentali come gli scozzesi Mogwai o gli americani, arrivati qualche anno dopo, Explosions in the Sky sono una sorta di manifesto vivente, per alcuni, con il loro rumore bianco alternato a momenti eterei), vuoi per un cantato afono/gridato/parlato a seconda dei casi ma comunque lontano dalla tradizionale formula strofe-ritornelli, vuoi per la lunghezza dei brani oltre i canonici 3-4 minuti, vuoi per un aspetto sperimentale (difficile spiegare meglio) sempre presente e le influenze di altri generi, tra cui in particolare alcune libertà prese dal jazz.

Ecco, a racchiudere in un unico contenitore tutte le caratteristiche di cui sopra (nella versione, spesso, con la voce) sono stati in maniera esemplare i June of 44, il gruppo che sarà in tour in Italia in maggio per la gioia di qualche migliaia di appassionati. Occasione per riascoltare i loro dischi, invecchiati bene, in particolare quello forse più intellettuale e meno rumoroso, Four great points. E per riascoltare anche il meglio di quegli anni e di quel suono così poco classificabile eppure così riconoscibile, partendo dall’album forse di post-rock ante litteram, in realtà uno dei dischi tout court migliori dell’intero decennio, che è Spiderland degli Slint, anno 1991. E poi passare da Gastr del Sol (versante avant-folk), Don Caballero (versante math-rock), Tortoise (versante, boh, fusion?), Karate (emo-jazz?), Rachel’s (versante classica), Labradford (ambient), fino all’estetica canadese che parte dai Godspeed You! Black Emperor.

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