I Radiohead e la chiusura del cerchio

L’isteria collettiva – sempre di quella piccola percentuale di mondo interessata – ha accompagnato come prevedibile l’uscita di “A moon shaped pool”, nuovo album nientemeno che dei Radiohead. Come giusto che sia, visto che loro stessi hanno contribuito a crearla, prima con misteriosi volantini inviati ai fan, poi scomparendo del tutto dal web, con i soliti più intelligenti degli altri che hanno fatto dell’arguta ironia o hanno criticato l’aspetto troppo promozionale dell’operazione, che si è conclusa con la pubblicazione a sorpresa poi di due videoclip con due (fin da subito interessanti) pezzi nuovi: uno di animazione che vuole essere una riflessione sull’Islamofobia e la crisi dei rifugiati in Europa e l’altro diretto da un tale di nome Paul Thomas Anderson. Diciamo che in fondo poteva andare peggio, nel mondo del web, in quei giorni.
Poi è arrivato l’album e ora, visto il profluvio di commenti e instant-recensioni che si potevano reperire già da pochi minuti dopo la messa on line provenienti da tutto il mondo, mi pare fin quasi inutile parlarne. Semplicemente, ascoltatelo. Per favore, ascoltate il nuovo disco dei Radiohead, prima di parlarne. Poi non cambierete idea su di loro. Chi li trova noiosi, capisco che qualcuno possa trovarli noiosi, continuerà ad annoiarsi. Chi pensa siano dei geni, continuerà a pensare che siano dei fottuti geni mandando col pensiero a fanculo tutti quelli che si permettono di criticarli. Comunque la si pensi, continuano fortunatamente a rappresentare un’eccezione nella scena musicale mondiale, essendo probabilmente l’unico gruppo così popolare a essere anche così volutamente intellettuale, in qualche modo difficile. Prendete questo disco: gli archi, il pianoforte, la cura del dettaglio maniacale, gli arrangiamenti raffinati, le chitarre ancora in secondo piano, la presenza dell’elettronica così come della classica contemporanea, il folk, il jazz. Tematiche legate al collasso culturale, politico e sociale di questi anni. I Radiohead continuano a fare le loro cose, insomma, continuano a essere ambiziosi, al nono album, anche in un album in cui sono presenti diversi pezzi già in qualche modo noti, compresa la conclusiva tanto attesa “True Love Waits”, in una versione minimale da far commuovere le pietre. Un aspetto, questo, che rende il disco anche piuttosto vario (oltre che cupo), quel tanto che basta per lasciare da parte quella vaga ricerca di un suono per forza nuovo, quasi artificioso, di “The King of Limbs”, ultimo album di 5 anni fa, giustamente considerato uno dei pezzi meno pregiati della loro discografia. Qui sembra invece di essere di fronte ai Radiohead nella loro purezza, quasi a una chiusura del cerchio. Non a un capolavoro, a causa soprattutto di quel già sentito ormai inevitabile, ma a volte anche fastidioso, nella loro produzione. La rivoluzione, d’altronde, l’hanno già fatta all’epoca di “Kid A”. Ora si può solo sperare che si mantengano a questo livello. E se invece usciranno di scena, come sussurra qualcuno, l’avranno fatto con la solita classe.

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