Il “black metal” dei Bachi da Pietra

La premessa è d’obbligo, visto che tendenzialmente qui cerco di evitare di parlare troppo da fan: i Bachi da Pietra mi fanno generalmente impazzire e credo pure siano la più grande rock band italiana nata negli anni Duemila. Questo ancor prima di conoscere e apprezzare un personaggio enorme come Bruno Dorella, ormai ravennate d’adozione, qui alla batteria e quasi messo all’angolino dalla straripante personalità di un altro gigante del settore come Giovanni Succi (di cui vi consiglio di recuperare anche il disco omaggio a Paolo Conte di fine anno scorso), come al solito a chitarra e voce, questa molto più varia del passato. Un duo chitarra e batteria come nella tradizione di certo punk-rock che in realtà non c’entra nulla con i Bachi da Pietra, tra le cui caratteristiche principali, mi piace citarlo da Wikipedia (mi emoziono sempre un po’ quando trovo gruppi di nicchia che mi piacciono su Wikipedia), c’erano “ritmi rallentati quasi claustrofobici” e tanto per rendere l’idea l’album di debutto fu registrato nella cripta di una chiesa con «tecniche di registrazione ispirate a tecnologie arcaiche per dare all’album un suono vivido, ruvido e profondo». Stiamo parlando del rock-blues-folk molto, molto scuro dei primi album, i più grandi e inarrivabili. Con “Quintale”, due anni fa, la svolta verso un suono più duro e senza dubbio anche (purtroppo) normalizzato, per un buon disco di transizione, come si dice in questi casi, checché ne dica qualcuno che ne parla come una pietra miliare. La transizione continua con “Necroide” (in uscita ufficialmente il 25 settembre) che è – come ci ripetono da mesi – un omaggio alle radici musicali di Succi e Dorella, al metal e all’hard rock. Tanto che alcuni pezzi sembrano quasi delle cover, al primo ascolto. Poi, in tutta sincerità e sempre con l’obiettività che caratterizza questo articolo, diventa una droga. Una potenza, a partire dall’incredibile assalto di “Black Metal il mio folk” (che non è certo l’unico titolo geniale, battuto almeno da “Slayer & The Family Stone”, senza dimenticare quel “Fascite necroide” che ricorda il ragno che ha ucciso proprio il chitarrista degli Slayer) passando per momenti al confine col funky, il rock desertico, un vocoder a tradimento che ha il merito di far scrivere a qualcuno “Daft Punk” in una recensione dei Bachi da Pietra, gli Iron Maiden, i Led Zeppelin. Ma il tutto con uno spirito che ricorda quei primi dischi di cui si parlava poco sopra (a partire da “Cofani funebri”), per un album che pare capovolgere tutto e dare nuova vita a questi strani insetti saltati fuori da chissà dove ormai più di dieci anni fa…

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