Il primo grande disco del 2017

David Longstreth Dirty ProjectorsCos’è il genio? In musica, dove gran parte di quello che ascoltiamo oggi è stato di fatto inventato alcuni decenni fa, il genio è un talento fuori dal comune che deve avere però anche una buona dose di originalità. Nel campo del rock contemporaneo, dove peraltro la parola è spesso abusata, nel nuovo secolo non sono poi così tanti a poter essere definiti tali. Uno è un personaggio apparentemente minore , oggi 35enne cantautore, ottimo chitarrista, compositore poliedrico, Dave Longstreth, meglio noto come Dirty Projectors, che è una band come – che so – gli Sparklehorse lo erano per Mark Linkous. Oggi il suo è un progetto molto chiacchierato, che negli Stati Uniti è a cavallo tra l’alternativo e il mainstream, indubbiamente di successo, e un suo nuovo disco era particolarmente atteso (pure in Italia sta finendo anche nei quotidiani e nelle riviste generaliste), soprattutto dopo la fine del rapporto con la sua compagna (artistica e nella vita) Amber Coffman. Non serviva questo album – omonimo, uscito il 21 febbraio ancora per la Domino, settimo di una carriera avventurosa, a cavallo tra i generi pur restando ancorata alla forma canzone – per avere la conferma che tutto quello che ruotava attorno a Longstreth erano più che altro orpelli. E neppure per certificarne la grandezza fuori da qualsiasi schema. Qualcuno storcerà il naso per i riferimenti all’r&b, la produzione in stile hip hop che va tanto di moda, l’auto-tune, i falsetti, ma trovatela da qualche altra parte in ambito pop questa ricchezza, questa varietà, questa libertà espressiva, questa contemporaneità. Qualcuno ci ha trovato delle affinità con l’ultimo, straniante, Bon Iver, ma in realtà quello non si poteva dire davvero un disco riuscito, piuttosto un esperimento. Qui invece siamo di fronte a un qualcosa di compiuto, forse non un capolavoro come il suo Bitte Orca del 2009, ma un disco di art-pop in linea con i tempi, post-tutto, che guarda soltanto alla musica di oggi. Sicuramente merita l’ascolto attento e approfondito che richiede. Così come purtroppo non si può dire invece – tanto per citare un altro disco importante uscito in questi primi due mesi dell’anno – per il nuovo Mark Kozelek, ancora a firma Sun Kil Moon, oltre due ore di flusso di coscienza finito su disco probabilmente allo scopo più che altro di innervosire l’ascoltatore, conoscendo l’autore. Perché fare semplicemente un disco bello, come accadde per esempio tre anni fa con Benji (senza stare a scomodare i suoi Red House Painters), ha dei rischi: potrebbe pure ottenere (un seppur piccolo) successo…

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