L’incredibile disco di Iosonouncane

Quest’anno in Italia non è uscito solo il disco di Jovanotti. Ok, incipit banale giusto per rompere il ghiaccio e parlare dell’esistenza di album italiani fuori da logiche commerciali. E anche qui scopro l’acqua calda, pieno com’è di band interessanti che fanno musica senza compromessi. Non capita spessissimo però di avere a che fare con dischi difficili che riescano a diventare anche davvero importanti, con cui si dovrà fare i conti in futuro. In questo primo scorcio del 2015 ci prova il Limite valicabile degli Uochi Toki, che è rap senza essere rap, mitraglia di parole e suoni «fuori tempo», come direbbero loro, che ne conferma l’estro e la genialità (nei testi), ma che diventa pure estenuante (sono venti e rotti pezzi lunghi circa 10 minuti l’uno) e che non so se riascolterò mai una seconda volta in vita mia, ecco. Ci provano i Father Murphy con un ottimo album che niente ha a che fare con l’Italia (cantato – si fa per dire – in inglese, prodotto in America) e che è forse l’apice della loro carriera. Si chiama Croce ed è come attraversare le macerie dell’industrial per approdare all’altare di una messa nerissima, tra urla minacciose e ambientazioni sonore inquietanti, giusto un passo prima di diventare stereotipo.
In tanti ci provano, ma poi c’è chi ci riesce davvero, come IOSONOUNCANE, il cui ultimo e secondo album, DIE (per le maiuscole prendetevala con lui), è l’unico motivo che mi ha spinto a scrivere queste righe. Dopo un disco d’esordio molto promettente ma anche piuttosto confusionario, Jacopo Incani (personaggio schivo e lontano dai riflettori, con la sola particolarità, forse, di provenire dalla Sardegna) ci ha messo quattro anni per piazzare il colpo che lo porta su un altro pianeta rispetto a tutti gli altri. Devo trovare le parole adatte, senza farmi travolgere dall’entusiasmo per un disco che rappresenta davvero un’anomalia in Italia, un album che ti entra in testa come fosse musica pop pur non essendoci dentro neppure un ritornello, o quasi; un album che è cantautorato (pura narrazione surreale in italiano: la storia è quella di un uomo in mare e della sua donna che ne teme la morte, ma l’ho capito solo dopo aver letto la cartella stampa) e allo stesse tempo avanguardia; che mischia l’elettronica ai suoni orchestrali, i sintetizzatori al sax e alla chitarra sarda preparata di Paolo Angeli, per esempio, tra la dozzina di musicisti che hanno suonato qui dentro. Straripante, potrebbe essere la parola giusta per rendere l’idea della quantità di spunti che contiene, se non fosse che potrebbe far sembrare ci sia qualcosa di incontrollato, di casuale, mentre invece DIE è studiato dal primo all’ultimo dei suoi 39 minuti, che scorrono come un flusso unico, vario ma coerente. Una pietra miliare del nostro mondo “pop”, fossimo un paese (almeno musicalmente parlando) normale.

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