Il nuovo Afterhours: un disco coraggioso, non certo un capolavoro

“Folfiri o folfox” è uscito pochi giorni dopo la notizia che Manuel Agnelli sarà uno dei giudici della prossima edizione di X Factor e già questo ne ha fatto il disco probabilmente più chiacchierato della storia ormai trentennale degli Afterhours, al loro undicesimo album in studio (l’ottavo cantato in italiano), in grado di debuttare al primo posto nella classifica dei dischi più venduti in Italia. C’è chi ci vede un collegamento, solitamente sono quelli che sono convinti che Agnelli abbia accettato la proposta del talent di Sky esclusivamente perché aveva un disco da promuovere. Personalmente non ho un’opinione in merito e non mi interessa neppure avercela. Di certo però questo (già a partire dal bizzarro titolo che gioca con i nomi dei trattamenti chemioterapici a cui si sottoponeva il padre di Manuel prima di morire) è tutto tranne che un disco commerciale o adatto a un pubblico di un talent televisivo. Anzi, ostico com’è in certi passaggi (pur restando sempre naturalmente nell’ambito della forma canzone), forse verrà ascoltato davvero con attenzione solo da chi era già fan della band milanese, che secondo le rivelazioni dello stesso Agnelli ha seriamente rischiato di sciogliersi ma che invece qui si presenta con la migliore formazione di sempre, se si pensa che alle chitarre ci sono due pezzi grossi anche al di fuori della band come Xabier Iriondo e Stefano Pilìa dei Massimo Volume, alla batteria Fabio Rondanini dei Calibro 35 e a completare il tutto al basso un cantautore di culto (Roberto Dell’Era) e al violino Rodrigo D’Erasmo, valore aggiunto anche in fase di produzione. Musicalmente parlando questa sorta di super gruppo si fa sentire eccome, con un suono mai così vario e fin quasi stordente e una chiara propensione a lasciare libera la creatività senza paura di avventurarsi in alcuni esperimenti al limite del cacofonico. «Spero che il pubblico lo senta che non ci stiamo ripetendo», dice Agnelli in un’intervista. Lo sentiamo, in effetti. E bisogna dare atto agli Afterhours di aver fatto un disco davvero ambizioso come pochi altri che “contano” in Italia hanno fatto negli ultimi anni (se non decenni), stratificato, su cui è impossibile dare un giudizio netto, se non ammettere che si tratta di quacosa di importante, cui prestare attenzione, in ambito rock in Italia. Questo, però, purtroppo non lo rende automaticamente un capolavoro, come ha azzardato invece qualcuno. Sicuramente dentro questo (doppio) album ci sono tante cose molto belle (mi limito a citare solo la devastante apertura di “Grande” , le cui aspettative vengono infrante però già dalla seguente, quasi fastidiosa, “Il mio popolo si fa”), ci sono 18 canzoni (tra cui due apprezzabili strumentali) che affrontano temi come malattia, morte, cura ma anche rinascita («Non ho più una fidanzata che mi lascia di cui poter parlare», scherza Agnelli nelle interviste). Ci sono però anche altre cose piuttosto bruttine. Alcuni testi davvero troppo verbosi (anche se fortunatamente mai davvero pretenziosi in stile Marlene Kuntz, per fortuna) che fanno rimpiangere il cut-up dei primi dischi in italiano. E poi una certa propensione all’enfaticità, che a volte fa ricordare il Teatro degli Orrori, oltre che un cantato spesso sopra le righe che, lo giuro, ha fatto balenare nei miei pensieri il fantasma di Piero Pelù. Un rischio calcolato, quello di esagerare nei toni e nei modi, insito in un’operazione così forte, su cui la critica, in generale, pare aver chiuso un occhio. Preferendo invece sottolineare come gli Afterhours dopo l’ottimo “Padania” di quattro anni fa che già andava in questa direzione, restino orgogliosamente fuori dagli schemi di una scena alternativa di cui hanno scritto la storia. Massimo rispetto, certo. Ma i dischi davvero belli e riusciti degli Afterhours restano altri, non certo questo lavoro che pare dato in pasto alla critica quasi solo per dimostrare la propria coerenza.

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