Se i Muse sono la rock band più grande del mondo…

«Con gli U2 in crisi d’identità, i Radiohead sempre più minimalisti e i Coldplay impegnati a flirtare con il pop di Rihanna, l’obbiettivo dichiarato dai Muse con il nuovo album, The 2nd law, è solo uno: diventare la più grande rock band del mondo». Questa l’ho letta su Repubblica, un paio di settimane fa. E ci sta. I Muse fanno rock e riempiono gli stadi, quindi secondo i criteri di un quotidiano generalista possono candidarsi a diventare la più grande rock band del mondo. Ma ha senso parlare dell’ultimo disco dei Muse? Beh, forse no. Qui sarebbe meglio parlare del festival di elettronica Robot, in corso a Bologna, per esempio (il consiglio è comunque di andarci, anche solo per la location, che è il palazzo Re Enzo in piazza Maggiore). Ma esclusivamente per il gusto di stare sulle palle al fan medio dei Muse e allo scopo di salvare anche una sola persona dall’ascolto, ho deciso di farlo. Che l’ultimo album dei Muse faccia schifo non lo scopro certo io, lo hanno scritto, proprio in questi termini, autorevoli critici musicali (anche se ci sono pure delle eccezioni). E io non mi ero neppure sognato di ascoltarlo. Però l’ho fatto: in questi giorni ho ascoltato in streaming un po’ tutta la loro roba recente. Li avevo abbandonati dopo Origin Of Simmetry, anno 2001, il loro secondo disco. Non malissimo a dire il vero, alcuni parlano addirittura di capolavoro. Non so. Di certo faceva capire quello che sarebbero diventati, i Muse. E dire che il primo disco mi era anche piaciuto. Diciamo che il loro sound post-primi-Radiohead faceva ben sperare e regalava qualche canzone da ricordare. C’era già un po’ troppa enfasi, ma erano ragazzi, andava più che bene. Proprio quella loro voglia di enfatizzare il tutto, limitiamoci a dire così, li ha portati a inseguire con il passare degli anni il mito dei Queen (che per quanto mi riguarda rappresentano il male assoluto in musica) e a fare per esempio un disco come The 2nd Law. Con quei falsetti, la voce che esplode, le chitarre hard mischiate all’elettronica danzereccia, deliri progressive e sinfonici, tutta quella magniloquenza, i peggiori anni Ottanta, il cattivo gusto orgogliosamente esibito. Un disco di rock che vuole essere un’opera lirica, pacchiano all’ennesima potenza, che cade nel ridicolo, oltrepassandolo. Una tragedia. Peggio di quello che mi potessi aspettare. E pensare che c’è davvero un mucchio di gente che li ama alla follia, pensando grazie a questo di essere davvero dei veri rockettari, quando invece lo spirito del rock è tutto l’opposto. Lo dice bene la bella recensione di Sentireascoltare, insomma, proprio come i Queen negli anni ottanta, i Muse sono sul tetto del mondo pur realizzando dischi di valore quasi nullo.
Intanto che c’ero, in questi giorni ne ho approfittato per riascoltare anche l’altra band con cui pare si stiano contendendo il pianeta, i Coldplay, che avevo rapidamente archiviato come un gruppo bollito dopo i primi due ottimi dischi (restando comunque meglio dei Muse, sia chiaro). Ecco, ora mi sono sforzato di ascoltare con attenzione anche i loro ultimi tre album, nonostante uno si chiami Viva la Vida e nonostante quel duetto con Rihanna di cui si diceva in apertura. Beh, ecco, a (ripetuti) ascolti finiti, direi che non mi ero sbagliato di molto. In fondo non è che si possa poi pretendere da un gran figo che ha ottenuto un successo planetario nel giro di pochi mesi e che sta con Gwyneth Paltrow, di essere davvero anche un artista con la a maiuscola. Qualche sfiga la devi avere per fare musica che vada oltre il piacevole. Almeno qualche piccolo tormento esistenziale, una benché minima pretesa intellettuale. Ma ora ricordo, i Coldplay me lo avevano detto chiaramente quando li vidi insieme ad altre venti persone ormai dodici anni fa, quando da debuttanti aprirono nel tardo pomeriggio un mini-festival a Verona che vedeva come headliner nientemeno che i Marlene Kuntz: quando furono per fare “Yellow” non dissero mica che era una canzone bellissima e nata da chissà quale idea, no, dissero che in Inghilterra aveva venduto un botto di copie. Aveva le idee chiare Chris Martin, e l’impressione nettissima è che dopo quei due bei dischi di sofisticato brit-pop abbia detto, ok, adesso cazzeggiamo un po’ e facciamo roba che mi faccia vendere milioni di dischi e riempire gli stadi, senza fare troppo schifo. Un po’ di archi (tra l’altro arrangiati da Brian Eno, ma non è che sia per forza sinonimo di qualità assoluta), un po’ di elettronica, alcune melodie a prova di bambino scemo e così via. Ce l’hanno fatta. E non ce l’ho con loro se alcuni pezzi li ascolti anche mentre stai comprando una lavatrice. Anzi, forse sono proprio quelle le loro canzoni più riuscite degli ultimi anni. Ma è inutile che me la veniate a raccontare, la differenza tra i primi due dischi e il resto è clamorosa, sentendo tutta la loro produzione in successione. In due parole viene meno la spontaneità e cala l’intensità delle canzoni. Tutto diventa plastificato, per così dire. Magari anche carino. Sì, i Coldplay fanno musica carina. Ma non meritano di stare neppure tra i cento gruppi che salverei dal diluvio universale.

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